Storia avventurosa di un Cagnetto clandestino
Al terzo giorno che Petru, il suo bambino, mancava da casa, Cagnetto cominciò ad agitarsi. “Non sarà che poi non torna?” si chiedeva sconsolato il povero quattrozampe.
“Petru non è mai mancato così a lungo. Andava a scuola a piedi, spesso l’accompagnavo lungo i viottoli di campagna che portano al villaggio. Il tempo di tornare a casa e farmi una dormitina, ed eccolo tornare” si diceva cercando una spiegazione a questa assenza prolungata.
Così cominciò a uggiolare davanti alla porta di casa, dove non lo lasciavano quasi mai entrare. Voleva annusare lì dentro, e scoprire se per caso il suo bambino non si fosse nascosto dietro la stufa o sotto il tavolo. Ma la madre e la sorella di Petru non volevano saperne di farlo entrare. «Vai via, Cagnetto!» gli gridavano da dietro la porta. «Non rompere le scatole che abbiamo già abbastanza problemi.» Una volta la madre cercò addirittura di scacciarlo a calci: «Non capisci che facendo così ci fai soffrire ancora di più?». Era chiaro: quelle due donne erano infelici e anche a loro mancava Petru. Ma perché, allora, non lo cercavano? Perché se ne stavano sempre in casa? Certo, oltre al suo bambino Petru, mancava anche papà Igor, il padrone. “Che si siano nascosti insieme?” si chiese Cagnetto. Intanto passavano i giorni, la madre si lamentava, la figlia era triste, lui annusava a destra e a manca ma di quei due nessuna traccia odorosa, nemmeno al villaggio. Erano chiaramente andati lontano.
“Se stanno facendo una gita, perché non mi hanno portato? Ogni volta che andavano nei boschi a cercare bacche e more e funghi io li ho accompagnati, e una volta che ho ucciso una pernice e gliel’ho portata mi hanno anche ringraziato. Perché ora fanno così?”
La testa di Cagnetto stava quasi scoppiando a forza di pensare. Tra l’altro la madre e la figlia spesso dimenticavano di dargli da mangiare, e così aveva dovuto cavarsela andando a rubare qualcosa dalle ciotole dei cani delle case vicine.
Fu così che, una notte in cui non riusciva a prender sonno, Cagnetto decise di partire e andare a cercare il suo bambino.
La mattina, appena vide uscire di casa la madre e la figlia, le salutò facendo molte feste. Riuscì a farsi dare un po’ di cibo, lo mangiò e poi partì.
Il primo posto dove andò era la piazza del villaggio, vicino alla scuola. Lì, spesso gli era capitato di vedere salire su un autobus delle persone che conosceva, e quelle persone poi non erano mai più tornate. «Italia», «Germania», «America», dicevano prima di partire. E poi «Torino», «Milano», «Francoforte», «Berlino», «Parigi»... Erano luoghi probabilmente lontani, così lontani che poi ci si restava.
Si era messo a pensare, nel mezzo della piazza, quando un amico del suo bambino lo vide. Allora Cagnetto gli andò vicino e gli fece un po’ di feste. «Hai bisogno di un nuovo amico, poverino» gli disse il bambino. «Petru è andato in Italia e ti ha lasciato qui da solo. Vuoi venire a casa con me, che chiediamo a mia madre se puoi diventare il mio cane?»
Cagnetto gli diede una leccata, ma si rifiutò di muoversi. “Bisogna andare in Italia allora” pensò. “Là troverò il mio bambino e forse anche il padrone, e torneremo a stare insieme e fare le passeggiate nel bosco.”
Per un paio di giorni restò vicino agli autobus che partivano, finché dalla frequenza improvvisa con cui sentiva pronunciare la parola «Italia» capì di aver trovato l’autobus giusto. Poco prima della partenza, mentre tutti erano occupati ad approfittare degli ultimi momenti per abbracciarsi, soffiare il naso, salutarsi, Cagnetto balzò nel vano portabagagli del bus e si rintanò in un minuscolo spazio rimasto libero tra scatoloni, valige, sacche.
Dalla Romania all’Italia, che avventura! Cagnetto era conscio dei rischi che correva: se lungo la strada lo avessero scoperto, l’avrebbero fatto scendere in qualche posto sconosciuto, troppo lontano per ritrovare la strada di casa, nei boschi della Transilvania. E non sarebbe nemmeno più riuscito a trovare un passaggio per raggiungere in Italia il suo bambino.
Così restò nascosto per due giorni e mezzo, facendosi sempre più piccolo, senza mangiare, bevendo solo la sua stessa pipì per non morire di sete. L’autobus ogni tanto si fermava nei boschi per far fare i loro bisogni ai viaggiatori. Qualche volta aprivano anche il portellone del bagagliaio per tirare fuori qualcosa, e allora Cagnetto si raggomitolava ancor di più, e respirava piano piano per non farsi scoprire. Attraversarono stati dove si parlavano lingue diverse dalla rumena, e ogni volta c’erano poliziotti che controllavano i documenti dei passeggeri e mettevano il naso tra i bagagli. Qualche valigia fu anche tirata fuori e aperta, per controllare cosa c’era dentro. Una volta Cagnetto rischiò quasi l’infarto per la paura. I poliziotti sembravano molto nervosi e strepitavano parole che lui non capiva.
La terza mattina, quando già c’era un po’ di luce ma ancora non si vedeva il sole, poco dopo un ennesimo controllo, l’autobus si fermò per far scendere alcuni viaggiatori. L’autista aveva gridato: «Verona! Italia!». Cagnetto capì di avercela fatta e, senza pensarci due volte, si alzò sulle gambe stanchissime, e balzò fuori dall’autobus mentre sbarcavano i bagagli di un gruppetto di viaggiatori.
«Ma quello è il cane di Petru!» esclamò dal finestrino un viaggiatore che era rimasto seduto nell’autobus.
«Petru chi?» rispose un altro che invece era sceso.
«È il cane dei Badescu, Petru e Igor!»
Cagnetto non sapeva se aver paura o essere contento che l’avessero riconosciuto, così scodinzolò timidamente.
«Non mi dire che sta andando a Milano per cercare la sua famiglia» disse una donna, chinandosi per accarezzarlo.
“Forse l’autobus non si ferma qui ma prosegue per Milano, e io avrei dovuto restare nascosto tra i bagagli” pensava intanto Cagnetto. “Qui dicono che Petru è a Milano e io lì devo andare. Perché sono sceso a Verona? Che stupido sono! Adesso come faccio?”
Intanto l’autista aveva chiamato a raccolta i passeggeri: «Si riparte per Milano, presto!».
Cagnetto leccò avidamente un po’ d’acqua in una pozzanghera e fece per saltare di nuovo nel bagagliaio, ma una mano lo trattenne per il collare.
«Ciao, sono Vlad, e tu resti qui a Verona con me» gli disse un ragazzo grande guardandolo con occhi malvagi.
“Oh no! Proprio adesso che sono quasi arrivato dal mio bambino” si spaventò Cagnetto. “Cosa vuole questo?” si chiese mentre l’autobus ripartiva. Gli venne una crisi di pianto: «Caì caì caìììììì».
Per tutta risposta Vlad gli diede un calcio nel sedere, e gli legò un pezzo di corda al collare dicendo: «D’ora in poi tu stai con me e fai il buono. Insieme chiederemo l’elemosina e guadagneremo un sacco di soldi. Tu dovrai avere lo sguardo triste e restare magro magro, così i passanti si impietosiranno di più. Caro Cagnetto, sei in trappola: per me vali più di un lavoro, quindi togliti dalla testa di scappare. Adesso sei mio e si fa quello che dico io».
Cagnetto, che sotto sotto era un cane di strada meno ingenuo di quello che si può credere, decise che ormai era inutile frignare. Doveva accettare la sfortuna, e cercare di cavarsela. Se stava buono, Vlad prima o poi si sarebbe distratto e a quel punto lui sarebbe riuscito a scappare.
Così per giorni e giorni Cagnetto chiese la carità per le strade di Verona, piene di gente sfaccendata che passeggiava guardando per aria e qualche volta in basso verso di lui. In poco tempo fecero molti soldi e Vlad cominciò a mostrarsi soddisfatto. Una sera che Vlad si era addormentato della grossa dopo essersi scolato una bottiglia di vino, Cagnetto rosicchiò per un paio d’ore la corda a cui era legato e riuscì finalmente a scappare.
Si mise a correre verso il luogo dove era sbarcato dall’autobus. Sbagliò strada una, due, tre volte e infine lo raggiunse. Si nascose dietro una macchina, terrorizzato che Vlad venisse a cercarlo proprio lì. Per un giorno attese senza mai addormentarsi. Arrivarono due autobus ma sentì dire dagli autisti «Genova!», e poi «Marsiglia!». Perdippiù trasportavano passeggeri che venivano da chissà dove, gente che non parlava rumeno. Ma il terzo autobus era quello giusto e, mentre tutti si salutavano, Cagnetto zompò nel portabagagli rimpicciolendosi dietro una cesta.
Si aspettava un viaggio molto lungo, e voleva approfittarne per dormire un po’. Ma dopo poco, giusto il tempo di fare un pisolino, l’autobus si fermò e questa volta scesero tutti i passeggeri.
«Milano! Italia!» gridò l’autista.
«Cosa ci fa un cane tra i bagagli?» gridò una vecchia appena scesa.
«Prendilo!» disse un altro.
Ma questa volta Cagnetto fu rapido come un fulmine. Scese con un balzo e scappò via a gambe legate.
Nel frattempo, il signore che aveva riconosciuto Cagnetto alla fine del primo viaggio, a Verona, era arrivato a Milano e aveva incontrato i Badescu in un capannone alla periferia della città. I primi tempi, tutti i rumeni che arrivavano dalla Transilvania andavano a dormire in quella fabbrica abbandonata.
«Petru, lo sai che ho visto il tuo cane poche ore fa?” aveva detto al bambino. «Probabilmente ti sta cercando. Ha viaggiato clandestinamente sul nostro autobus, ma un certo Vlad che era sceso a Verona se l’è portato via.»
Petru si era messo a piangere per la disperazione. Il suo cane gli mancava moltissimo, forse addirittura più della mamma e della sorella.
«Pensa come ti vuole bene, è venuto a cercarti!» l’aveva consolato il padre. «Vedrai che se è stato capace di fare tanta strada, alla fine riuscirà ad arrivare anche qui.»
«Non possiamo andarlo a cercare noi?» aveva chiesto Petru. «No, noi dobbiamo lavorare. Non abbiamo tempo di cercarlo. Ci troverà lui.»
Infatti Igor e Petru avevano trovato subito un lavoro. Il padre, con altri due rumeni, faceva il muratore nella grande villa di una famiglia italiana. E Petru li aiutava. Dovevano costruire una piccola casa per il custode nel parco della villa. Ogni mattina un signore veniva a prenderli nella fabbrica abbandonata e li riportava la sera, per dormire.
Erano ormai passate tre settimane da quando Petru aveva saputo che Cagnetto lo cercava, e il povero bambino ogni notte piangeva di nascosto, nel suo giaciglio per terra, accanto al padre e ad altre decine di rumeni. In certi momenti, però, faceva dei sogni bellissimi, e si vedeva correre nei boschi assieme al suo amato cane.
Nel frattempo Cagnetto, svoltato l’angolo, si era fermato a pensare. C’erano un rumore e una puzza tremenda, e la strada era piena di auto – molte di più che a Verona. “Dove diavolo vado adesso? Come faccio a trovare Petru?” si chiese. “Forse è meglio tornare indietro. Senza farmi vedere seguirò quelli che sono scesi dall’autobus per capire dove vanno.”
Con molta prudenza li pedinò per un percorso che non finiva mai. I rumeni camminavano e camminavano, molto lentamente, trascinandosi dietro i bagagli. Un signore gli mostrava la direzione. Le strade diventavano sempre più larghe, cominciavano a esserci non più solo case ma anche campi, finché raggiunsero un grande capannone. Entrarono tutti, ma Cagnetto restò fuori a pensare e ad annusare i dintorni.
In più punti, dalle parti dell’ingresso, gli parve di sentire l’odore del suo bambino. Benché Cagnetto si sentisse felice come un matto e quasi sicuro che Petru fosse là dentro, preferì aspettarlo all’aperto: entrare era troppo pericoloso, qualcuno avrebbe potuto rapirlo di nuovo. Nel frattempo rovistò tra la spazzatura cercando qualcosa da mettere sotto i denti.
La mattina dopo, mentre Petru usciva seguendo il padre per andare a lavorare, sentì qualcosa di bagnato che gli spingeva una mano. Era il naso del suo cane.
«Cagnettooo!» gridò.
«Caì! Arf! Caììì!» latrò quell’altro.
E tutti e due fecero delle corse e dei balzi per la grande felicità di essersi ritrovati.
Un mese più tardi il proprietario della villa chiese a Igor, Petru e Cagnetto di andare a vivere nella casetta che avevano costruito nel parco. Igor e Cagnetto avrebbero fatto i custodi, mentre Petru sarebbe andato a scuola, com’era giusto per i bambini della sua età.
Alla fine dell’anno scolastico anche la madre e la sorella li raggiunsero e la famiglia Badescu tornò a vivere insieme, come ai vecchi tempi.
Cagnetto divenne molto famoso e il suo caso finì su tutti i giornali d’Europa: «Cane viaggia clandestinamente dalla Romania all’Italia per cercare il suo bambino». Una troupe venne a filmare lui e Petru e la loro storia fu raccontata alla televisione. Infine ne fecero un film, che vinse l’Oscar per il Miglior Film Straniero.
Al terzo giorno che Petru, il suo bambino, mancava da casa, Cagnetto cominciò ad agitarsi. “Non sarà che poi non torna?” si chiedeva sconsolato il povero quattrozampe.
“Petru non è mai mancato così a lungo. Andava a scuola a piedi, spesso l’accompagnavo lungo i viottoli di campagna che portano al villaggio. Il tempo di tornare a casa e farmi una dormitina, ed eccolo tornare” si diceva cercando una spiegazione a questa assenza prolungata.
Così cominciò a uggiolare davanti alla porta di casa, dove non lo lasciavano quasi mai entrare. Voleva annusare lì dentro, e scoprire se per caso il suo bambino non si fosse nascosto dietro la stufa o sotto il tavolo. Ma la madre e la sorella di Petru non volevano saperne di farlo entrare. «Vai via, Cagnetto!» gli gridavano da dietro la porta. «Non rompere le scatole che abbiamo già abbastanza problemi.» Una volta la madre cercò addirittura di scacciarlo a calci: «Non capisci che facendo così ci fai soffrire ancora di più?». Era chiaro: quelle due donne erano infelici e anche a loro mancava Petru. Ma perché, allora, non lo cercavano? Perché se ne stavano sempre in casa? Certo, oltre al suo bambino Petru, mancava anche papà Igor, il padrone. “Che si siano nascosti insieme?” si chiese Cagnetto. Intanto passavano i giorni, la madre si lamentava, la figlia era triste, lui annusava a destra e a manca ma di quei due nessuna traccia odorosa, nemmeno al villaggio. Erano chiaramente andati lontano.
“Se stanno facendo una gita, perché non mi hanno portato? Ogni volta che andavano nei boschi a cercare bacche e more e funghi io li ho accompagnati, e una volta che ho ucciso una pernice e gliel’ho portata mi hanno anche ringraziato. Perché ora fanno così?”
La testa di Cagnetto stava quasi scoppiando a forza di pensare. Tra l’altro la madre e la figlia spesso dimenticavano di dargli da mangiare, e così aveva dovuto cavarsela andando a rubare qualcosa dalle ciotole dei cani delle case vicine.
Fu così che, una notte in cui non riusciva a prender sonno, Cagnetto decise di partire e andare a cercare il suo bambino.
La mattina, appena vide uscire di casa la madre e la figlia, le salutò facendo molte feste. Riuscì a farsi dare un po’ di cibo, lo mangiò e poi partì.
Il primo posto dove andò era la piazza del villaggio, vicino alla scuola. Lì, spesso gli era capitato di vedere salire su un autobus delle persone che conosceva, e quelle persone poi non erano mai più tornate. «Italia», «Germania», «America», dicevano prima di partire. E poi «Torino», «Milano», «Francoforte», «Berlino», «Parigi»... Erano luoghi probabilmente lontani, così lontani che poi ci si restava.
Si era messo a pensare, nel mezzo della piazza, quando un amico del suo bambino lo vide. Allora Cagnetto gli andò vicino e gli fece un po’ di feste. «Hai bisogno di un nuovo amico, poverino» gli disse il bambino. «Petru è andato in Italia e ti ha lasciato qui da solo. Vuoi venire a casa con me, che chiediamo a mia madre se puoi diventare il mio cane?»
Cagnetto gli diede una leccata, ma si rifiutò di muoversi. “Bisogna andare in Italia allora” pensò. “Là troverò il mio bambino e forse anche il padrone, e torneremo a stare insieme e fare le passeggiate nel bosco.”
Per un paio di giorni restò vicino agli autobus che partivano, finché dalla frequenza improvvisa con cui sentiva pronunciare la parola «Italia» capì di aver trovato l’autobus giusto. Poco prima della partenza, mentre tutti erano occupati ad approfittare degli ultimi momenti per abbracciarsi, soffiare il naso, salutarsi, Cagnetto balzò nel vano portabagagli del bus e si rintanò in un minuscolo spazio rimasto libero tra scatoloni, valige, sacche.
Dalla Romania all’Italia, che avventura! Cagnetto era conscio dei rischi che correva: se lungo la strada lo avessero scoperto, l’avrebbero fatto scendere in qualche posto sconosciuto, troppo lontano per ritrovare la strada di casa, nei boschi della Transilvania. E non sarebbe nemmeno più riuscito a trovare un passaggio per raggiungere in Italia il suo bambino.
Così restò nascosto per due giorni e mezzo, facendosi sempre più piccolo, senza mangiare, bevendo solo la sua stessa pipì per non morire di sete. L’autobus ogni tanto si fermava nei boschi per far fare i loro bisogni ai viaggiatori. Qualche volta aprivano anche il portellone del bagagliaio per tirare fuori qualcosa, e allora Cagnetto si raggomitolava ancor di più, e respirava piano piano per non farsi scoprire. Attraversarono stati dove si parlavano lingue diverse dalla rumena, e ogni volta c’erano poliziotti che controllavano i documenti dei passeggeri e mettevano il naso tra i bagagli. Qualche valigia fu anche tirata fuori e aperta, per controllare cosa c’era dentro. Una volta Cagnetto rischiò quasi l’infarto per la paura. I poliziotti sembravano molto nervosi e strepitavano parole che lui non capiva.
La terza mattina, quando già c’era un po’ di luce ma ancora non si vedeva il sole, poco dopo un ennesimo controllo, l’autobus si fermò per far scendere alcuni viaggiatori. L’autista aveva gridato: «Verona! Italia!». Cagnetto capì di avercela fatta e, senza pensarci due volte, si alzò sulle gambe stanchissime, e balzò fuori dall’autobus mentre sbarcavano i bagagli di un gruppetto di viaggiatori.
«Ma quello è il cane di Petru!» esclamò dal finestrino un viaggiatore che era rimasto seduto nell’autobus.
«Petru chi?» rispose un altro che invece era sceso.
«È il cane dei Badescu, Petru e Igor!»
Cagnetto non sapeva se aver paura o essere contento che l’avessero riconosciuto, così scodinzolò timidamente.
«Non mi dire che sta andando a Milano per cercare la sua famiglia» disse una donna, chinandosi per accarezzarlo.
“Forse l’autobus non si ferma qui ma prosegue per Milano, e io avrei dovuto restare nascosto tra i bagagli” pensava intanto Cagnetto. “Qui dicono che Petru è a Milano e io lì devo andare. Perché sono sceso a Verona? Che stupido sono! Adesso come faccio?”
Intanto l’autista aveva chiamato a raccolta i passeggeri: «Si riparte per Milano, presto!».
Cagnetto leccò avidamente un po’ d’acqua in una pozzanghera e fece per saltare di nuovo nel bagagliaio, ma una mano lo trattenne per il collare.
«Ciao, sono Vlad, e tu resti qui a Verona con me» gli disse un ragazzo grande guardandolo con occhi malvagi.
“Oh no! Proprio adesso che sono quasi arrivato dal mio bambino” si spaventò Cagnetto. “Cosa vuole questo?” si chiese mentre l’autobus ripartiva. Gli venne una crisi di pianto: «Caì caì caìììììì».
Per tutta risposta Vlad gli diede un calcio nel sedere, e gli legò un pezzo di corda al collare dicendo: «D’ora in poi tu stai con me e fai il buono. Insieme chiederemo l’elemosina e guadagneremo un sacco di soldi. Tu dovrai avere lo sguardo triste e restare magro magro, così i passanti si impietosiranno di più. Caro Cagnetto, sei in trappola: per me vali più di un lavoro, quindi togliti dalla testa di scappare. Adesso sei mio e si fa quello che dico io».
Cagnetto, che sotto sotto era un cane di strada meno ingenuo di quello che si può credere, decise che ormai era inutile frignare. Doveva accettare la sfortuna, e cercare di cavarsela. Se stava buono, Vlad prima o poi si sarebbe distratto e a quel punto lui sarebbe riuscito a scappare.
Così per giorni e giorni Cagnetto chiese la carità per le strade di Verona, piene di gente sfaccendata che passeggiava guardando per aria e qualche volta in basso verso di lui. In poco tempo fecero molti soldi e Vlad cominciò a mostrarsi soddisfatto. Una sera che Vlad si era addormentato della grossa dopo essersi scolato una bottiglia di vino, Cagnetto rosicchiò per un paio d’ore la corda a cui era legato e riuscì finalmente a scappare.
Si mise a correre verso il luogo dove era sbarcato dall’autobus. Sbagliò strada una, due, tre volte e infine lo raggiunse. Si nascose dietro una macchina, terrorizzato che Vlad venisse a cercarlo proprio lì. Per un giorno attese senza mai addormentarsi. Arrivarono due autobus ma sentì dire dagli autisti «Genova!», e poi «Marsiglia!». Perdippiù trasportavano passeggeri che venivano da chissà dove, gente che non parlava rumeno. Ma il terzo autobus era quello giusto e, mentre tutti si salutavano, Cagnetto zompò nel portabagagli rimpicciolendosi dietro una cesta.
Si aspettava un viaggio molto lungo, e voleva approfittarne per dormire un po’. Ma dopo poco, giusto il tempo di fare un pisolino, l’autobus si fermò e questa volta scesero tutti i passeggeri.
«Milano! Italia!» gridò l’autista.
«Cosa ci fa un cane tra i bagagli?» gridò una vecchia appena scesa.
«Prendilo!» disse un altro.
Ma questa volta Cagnetto fu rapido come un fulmine. Scese con un balzo e scappò via a gambe legate.
Nel frattempo, il signore che aveva riconosciuto Cagnetto alla fine del primo viaggio, a Verona, era arrivato a Milano e aveva incontrato i Badescu in un capannone alla periferia della città. I primi tempi, tutti i rumeni che arrivavano dalla Transilvania andavano a dormire in quella fabbrica abbandonata.
«Petru, lo sai che ho visto il tuo cane poche ore fa?” aveva detto al bambino. «Probabilmente ti sta cercando. Ha viaggiato clandestinamente sul nostro autobus, ma un certo Vlad che era sceso a Verona se l’è portato via.»
Petru si era messo a piangere per la disperazione. Il suo cane gli mancava moltissimo, forse addirittura più della mamma e della sorella.
«Pensa come ti vuole bene, è venuto a cercarti!» l’aveva consolato il padre. «Vedrai che se è stato capace di fare tanta strada, alla fine riuscirà ad arrivare anche qui.»
«Non possiamo andarlo a cercare noi?» aveva chiesto Petru. «No, noi dobbiamo lavorare. Non abbiamo tempo di cercarlo. Ci troverà lui.»
Infatti Igor e Petru avevano trovato subito un lavoro. Il padre, con altri due rumeni, faceva il muratore nella grande villa di una famiglia italiana. E Petru li aiutava. Dovevano costruire una piccola casa per il custode nel parco della villa. Ogni mattina un signore veniva a prenderli nella fabbrica abbandonata e li riportava la sera, per dormire.
Erano ormai passate tre settimane da quando Petru aveva saputo che Cagnetto lo cercava, e il povero bambino ogni notte piangeva di nascosto, nel suo giaciglio per terra, accanto al padre e ad altre decine di rumeni. In certi momenti, però, faceva dei sogni bellissimi, e si vedeva correre nei boschi assieme al suo amato cane.
Nel frattempo Cagnetto, svoltato l’angolo, si era fermato a pensare. C’erano un rumore e una puzza tremenda, e la strada era piena di auto – molte di più che a Verona. “Dove diavolo vado adesso? Come faccio a trovare Petru?” si chiese. “Forse è meglio tornare indietro. Senza farmi vedere seguirò quelli che sono scesi dall’autobus per capire dove vanno.”
Con molta prudenza li pedinò per un percorso che non finiva mai. I rumeni camminavano e camminavano, molto lentamente, trascinandosi dietro i bagagli. Un signore gli mostrava la direzione. Le strade diventavano sempre più larghe, cominciavano a esserci non più solo case ma anche campi, finché raggiunsero un grande capannone. Entrarono tutti, ma Cagnetto restò fuori a pensare e ad annusare i dintorni.
In più punti, dalle parti dell’ingresso, gli parve di sentire l’odore del suo bambino. Benché Cagnetto si sentisse felice come un matto e quasi sicuro che Petru fosse là dentro, preferì aspettarlo all’aperto: entrare era troppo pericoloso, qualcuno avrebbe potuto rapirlo di nuovo. Nel frattempo rovistò tra la spazzatura cercando qualcosa da mettere sotto i denti.
La mattina dopo, mentre Petru usciva seguendo il padre per andare a lavorare, sentì qualcosa di bagnato che gli spingeva una mano. Era il naso del suo cane.
«Cagnettooo!» gridò.
«Caì! Arf! Caììì!» latrò quell’altro.
E tutti e due fecero delle corse e dei balzi per la grande felicità di essersi ritrovati.
Un mese più tardi il proprietario della villa chiese a Igor, Petru e Cagnetto di andare a vivere nella casetta che avevano costruito nel parco. Igor e Cagnetto avrebbero fatto i custodi, mentre Petru sarebbe andato a scuola, com’era giusto per i bambini della sua età.
Alla fine dell’anno scolastico anche la madre e la sorella li raggiunsero e la famiglia Badescu tornò a vivere insieme, come ai vecchi tempi.
Cagnetto divenne molto famoso e il suo caso finì su tutti i giornali d’Europa: «Cane viaggia clandestinamente dalla Romania all’Italia per cercare il suo bambino». Una troupe venne a filmare lui e Petru e la loro storia fu raccontata alla televisione. Infine ne fecero un film, che vinse l’Oscar per il Miglior Film Straniero.