Palla di neve
Questa storia me l’ha raccontata un vecchio piccione che stava di casa sopra la finestra di camera mia tanto tempo fa, perciò non so se è vera. Però siccome lo conoscevo bene, e abbiamo abitato nello stesso palazzo per nove anni, e mi ha chiesto di raccontarla a tutti quelli che conoscevo, e io gliel’ho promesso, ve la racconto pure se se l’è inventata.
Immaginate una piazza grande, davanti a una chiesa, nella città vecchia. Una piazza benedetta dove c’è il sole tutto il giorno, dalla mattina alla sera. Quella piazza la volevano tutti: i ristoranti e i bar per metterci i tavolini, i ragazzi per incontrarsi sotto la statua di un tizio a cavallo, il tizio a cavallo per far sapere a tutti quanto era stato importante quando era vivo, i motorini per abbronzarsi al sole, i bambini per giocare, i passeri per fare shopping, i venditori ambulanti per esporre le borse e gli occhiali da sole, i turisti per mangiare i panini seduti per terra, i gatti per rimorchiare. Ma più di tutto la volevano i piccioni, perché avevano sempre abitato nella città vecchia – da prima che la città fosse vecchia – e se ne consideravano i proprietari. La piazza era sempre stata grande, però era successo un fatto strano. Sembrava sempre più piccola. Non c’era più posto per tutti. Così, man mano che aumentavano i ristoranti, i bar, i turisti, i gatti, i motorini, i piccioni, i bambini, ognuno cercava di scacciare l’altro, e tutti si lagnavano che prima si stava meglio. Ma nessuno sapeva dire quando era questo prima che nessuno aveva visto. I piccioni di carattere sono allegri, pigri e socievoli. Cioè gli piace stare in compagnia, e tutto il giorno se ne stanno a far niente, a litigare, a chiacchierare, ad abbordare le piccione, e a mangiare. Nessuno lavora più del necessario. Poi, quando fa sera, ognuno se ne torna a casa sua. Abitavano tutti nelle vicinanze. I piccioni erano tutti italiani. Cioè se li guardavi erano tutti uguali. Erano alti lo stesso, e della stessa misura. Avevano le stesse zampe rosa, gli stessi becchi rossi. Avevano gli occhi grigio-azzurri e le piume grigie, colore della cenere.
Un giorno però in quel mare uniforme di cenere comparve un piccione bianco. Ma bianco davvero. Era più piccolo degli altri e sembrava una palla di neve ammucchiata per sbaglio fuori stagione. Nessuno lo aveva visto arrivare, e perciò tutti rimasero molto stupiti quando a un tratto, sotto la panchina di marmo dove un giapponese stava sgranocchiando un panino, sbucò Palla di Neve, e arrivò per primo, planando, e si portò via la crosta di pane. Questo fatto era intollerabile, e subito gli altri gli volarono attorno, con le piume arruffate, per fargli capire che erano molto incattiviti. Gli dissero che qui non ci poteva stare, non poteva rubare il pane che era sempre stato loro, e di andarsene da un’altra parte. Palla di Neve rispose che non voleva rubare niente a nessuno, non faceva niente di male perché c’era pane per tutti, ma anche lui aveva fame. Allora Occhio Cieco, che era il piccione più vecchio della piazza e il capo della comunità, gli saltò addosso, gli piantò le zampe in testa e gli beccò il collo. Palla di Neve tutto spaventato mollò la crosta di pane. Zampettò davanti a un negozio di souvenir e rimase ad aspettare. Però da quella parte non cadevano briciole, e dopo un po’ la fame gli restituì il coraggio. Allora cercando di non dare nell’occhio, a piccoli voli, un saltello dopo l’altro, si riavvicinò al gruppo. Però, siccome era bianchissimo, lo notarono subito, e i più giovani strinsero le fila, come un esercito, e gli formarono davanti un muro di piume grigie. «Che vuoi?» gli chiese Zampa Storta, spingendo minacciosamente in avanti la testa. Si muoveva a scatti, come un pupazzo a molla. «Sono appena arrivato» rispose Palla di Neve, intimidito, «voglio vivere qui.»
Quando gli chiesero da dove veniva, Palla di Neve indicò col becco il cielo azzurro, e gli altri piccioni gli dissero di tornarsene da dove era venuto, perché qui erano già in troppi e non c’era posto per lui. Palla di Neve disse che il viaggio era stato troppo lungo, e lui era troppo stanco per ripartire subito. Gli altri gli dissero che se se ne andava subito non gli avrebbero fatto niente. Ma se non rispettava la legge, peggio per lui. Palla di Neve non voleva andarsene, perché aveva sentito parlare di questa piazza da anni, e finalmente c’era arrivato. Non aveva mai saputo che una legge gli proibiva di restare e non si mosse. Allora Zampa Storta e Becco Lercio lo presero nel mezzo e lo scortarono fino al cassonetto dei rifiuti, dall’altra parte della strada. «Sta’ attento» gli dissero, «se ti rivediamo in piazza sei morto e a casa tua non ci torni più.»
Sotto il cassonetto c’erano un gatto e un gelato che si scioglieva al sole. Zampettando, Palla di Neve si avvicinò al rivolo del gelato più lontano dal gatto, e cominciò a succhiare. Aveva un buon sapore di fragola. Però la fragola piaceva anche al gatto, che drizzò la coda, e inarcò la schiena, e a un tratto allungò una zampata, e per lo spavento Palla di Neve spiccò il volo e si mise in salvo sul bordo del cassonetto. Si appostò là e cominciò ad aspettare, pensando che tanto il gatto prima o poi finiva di mangiare. Invece il gatto non se ne andò, asciugò tutto il gelato e poi cominciò a lavarsi con la lingua, e dopo un’ora a Palla di Neve, che era stanchissimo e affamato, venne sonno. Guardò dentro il cassonetto, e vide che c’erano dei bellissimi materassi neri, tutti imbottiti. Sembravano un posto fantastico per dormire. Palla di Neve saltò nel cassonetto, e si buttò sul materasso, che era infatti morbido e profumato di cibo. E si addormentò di schianto.
Quando si risvegliò, era tutto buio. Ma buio davvero, che non si vedeva niente. Il buon odore di cibo si era trasformato in un puzzo da svenire. Palla di Neve si rialzò sulle zampe, e guardò dove prima c’era il cielo azzurro, e vide nero. Allora si spaventò. E capì che lo avevano chiuso dentro. E cominciò a chiamare aiuto. E chiamò e chiamò finché gli andò via la voce. Poi si mise a piangere. Ma nessuno lo sentì.
Era passato chissà quanto tempo quando riaprì gli occhi e la prima cosa che vide fu una bottiglia rotta – vicino al becco. E poi due spilli che scintillavano. Erano occhi. Palla di Neve cominciò a tremare, perché gli occhi appartenevano a una specie di salsiccia spelacchiata e lucida come una chiazza di petrolio che lo fissava. Era un grosso, grossissimo topo nero. Con un filo di voce Palla di Neve gli disse: «Non mangiarmi, ti prego». Topo Nero scoppiò a ridere. «Mangiare te? Sei un mucchietto d’ossi, posso trovare di meglio» disse. Palla di Neve tentò di rimettersi dritto sulle zampe, e di volar via subito, prima che l’altro cambiasse idea, però non ci riuscì. E non capì perché. «Cosa mi è successo?» mormorò. «Sei stato fortunato fratello» disse Topo Nero, «quando hanno svuotato il cassonetto nel camion dormivi e potevi restare stritolato. Invece il netturbino ti ha visto, ti preso per un’ala e ti ha buttato via.» Palla di Neve tentò di spiegare le ali, e capì che qualcosa non andava. Per il dolore, gli si drizzarono le piume sulla schiena. «Ti sei spezzato un’ala» disse Topo Nero. Palla di Neve si rannicchiò sulle zampe, e nascose la testa sotto l’ala. Sapeva cosa gli sarebbe successo. Quando un piccione si spezza un’ala, è condannato. Prima o poi lo investe una macchina, o muore di fame, e diventa un mucchietto di piume sul bordo della strada. Era un destino molto triste per uno che aveva fatto tanta strada, e Palla di Neve ricominciò a piangere.
«Vieni con me» disse Topo Nero, e senza voltarsi cominciò a strisciare in un vicolo oscuro. Zoppicando, Palla di Neve lo seguì. La casa del topo era dietro l’angolo. S’infilò nella zanzariera bucata che qualcuno aveva incollato contro una grata. «Stanotte puoi dormire qui» gli disse. «Poi però devi trovarti un altro posto, perché noi siamo già troppi e se ci becca il portiere ci ammazza tutti.» Palla di Neve si guardò attorno e nel buio sentì fremere i baffi di decine di topi. Decine di code gli si avvolsero attorno alle zampe. Erano i figli del topo. Erano tutti neri.
Nella casa di Topo Nero, Palla di Neve rimase tutto l’inverno. Giorno dopo giorno, l’ala spezzata gli dava meno dolore, e a poco a poco Palla di Neve cominciò a esplorare i dintorni. La piazza era molto vicina: ma se ne vedeva solo uno spicchio, la croce sulla chiesa, l’insegna del ristorante all’angolo e la testa del tizio di bronzo sul cavallo. Si vedevano anche i piccioni appostati sui cornicioni – tutti grigi come la cenere, tutti allegri e felici. La casa del topo era nelle cantine di un grande palazzo – il palazzo più grande che Palla di Neve avesse mai visto. C’era un grande cortile, con una magnolia, e un pozzo chiuso da una grata di ferro, e una palma. Sulla palma, venivano a chiacchierare due pappagalli brasiliani verdi come schizzi di vernice, frivoli e divertenti tant’è che le loro risate attiravano i corvi e le gazze di tutta la città vecchia; sul tetto del palazzo abitavano tre coppie incredibilmente chiassose di rondini africane; sulla magnolia si fermavano a litigare i gabbiani, che siccome erano nati in città parlavano un dialetto molto stretto – incomprensibile per Palla di Neve; nel buco del camino c’era una coppia di pipistrelli – e siccome erano due maschi, tutti gli abitanti del palazzo ne spettegolavano stupiti: ma tanto i pipistrelli uscivano solo di notte e si vedevano poco. Tutti gli uccelli lo salutarono, ognuno si faceva i fatti suoi, e Palla di Neve si sentì a casa. Dall’altissima antenna della televisione poteva contemplare tutta la città. Milioni di tetti, milioni di esseri umani, milioni di topi, migliaia di uccelli, migliaia di piccioni. C’era posto per tutti, e qui Palla di Neve voleva vivere. Nessuno sarebbe riuscito a scacciarlo. Nemmeno se fosse riuscito a volare di nuovo se ne sarebbe andato.
Poi scoprì il rifugio sotto la grondaia dell’ultimo piano. Era libero. Il pipistrello gli disse che ci avevano vissuto per anni un merlo e la sua merla, e ci erano stati bene, ma quando i figli erano cresciuti se n’erano andati. Il rifugio era al riparo dalla pioggia, e al caldo perché dietro il muro, proprio in quel punto, passava il tubo del riscaldamento. Per tutto l’inverno, Palla di Neve si costruì la casa. Un volo dopo l’altro, ci portò stecchi, foglie, cartacce, erba e fango secco. La costruì grande, e bella, e all’inizio della primavera salutò Topo Nero, lo ringraziò per l’aiuto, non avrebbe mai dimenticato. Promise che avrebbe ricambiato, tubando in codice se vedeva arrivare il portiere, e gli operai della derattizzazione. Nella nuova casa, era felice – però siccome c’era cibo dappertutto, non aveva niente da fare, e si sentiva solo, per passare il tempo si mise a spiare nella casa della ragazza che abitava proprio sotto di lui. Non voleva farsi notare, per paura che la ragazza lo facesse sfrattare dal portiere del palazzo, un omone enorme di cui il topo e la sua famiglia avevano una paura terribile. L’omone aveva tentato di sterminare il topo con un boccone di formaggio al veleno. Il boccone l’aveva mangiato il cane del notaio del primo piano, e il portiere non ci aveva più riprovato. Aveva chiamato la derattizzazione, che aveva bombardato il villaggio nelle cantine coi cannoni a gas. I figli più piccoli di Topo Nero erano morti soffocati e la moglie di Topo Nero si era bruciata i polmoni, e ancora tossiva. Poi avevano tentato con la polverina bianca, spargendola dappertutto come borotalco, e adesso tutti gli animali del palazzo – cani, gatti, pipistrelli, pappagalli, gazze, corvi, rondini - sapevano di non doversi mai fidare degli uomini. Però la ragazza non tentò mai di avvelenarlo e alla fine Palla di Neve diventò così coraggioso da passeggiare sul davanzale della finestra. La ragazza abitava con un ragazzo. Palla di Neve li guardava mangiare, dormire, ridere e fare capriole sotto i lenzuoli, e allora capì che cosa gli mancava. Doveva tornare in piazza e trovarsi una compagna.
Era estate. La piazza era talmente piena che dovette sorvolarla a lungo, e faticò a trovare un posto per posare le zampe. Ma la cosa più stupefacente fu che Palla di Neve vide – in mezzo alla marea grigio-cenere – alcune macchie di colore. C’erano piccioni bianco panna e piccioni scuri, quasi color asfalto, piccioni con le zampe grigie e piccioni col becco arancione o giallo. Rinfrancato, riuscì a mescolarsi agli altri piccioni senza che Occhio Cieco lo facesse scacciare dalle sue guardie. I piccioni stranieri venivano da chissà dove. Se glielo chiedevi, indicavano chi il fiume, chi le colline, chi in direzione del mare. Vivevano sparpagliati in città. Però di giorno venivano in piazza, e mangiavano negli stessi posti degli altri – fra le panchine, davanti alla chiesa, sotto i tavolini dei ristoranti. Palla di Neve volò – tutto lento perché l’ala gli era rimasta rattrappita – sull’unico spazio libero: la testa del tizio a cavallo. La piuma di bronzo del suo elmo era il punto più alto della piazza. Da lì, Palla di Neve sentiva tutte le voci, vedeva i colori, la gente, il movimento. Era come volare, ma senza dolore e senza fatica. Prese l’abitudine di passare lì tutto il giorno. Era bianchissimo, si notava da lontano. «Guarda quel piccione che si crede di essere un’aquila» disse Zampa Storta alla sorella. La sorella, Piuma di Perla, guardò. Non vide un’aquila, ma un piccione bianco come la neve. Era diverso da tutti, e si godeva il sole nel punto più bello della piazza. Quando Palla di Neve spiccò il volo per tornare a casa, Piuma di Perla si accorse che volava tutto storto, e che l’ala destra gli pendeva di lato come uno straccio.
Il giorno dopo, sull’elmo del tizio a cavallo Palla di Neve trovò una picciona col becco rosso, gli occhi azzurri e le piume soffici, che mandavano dei riflessi d’argento. Frullò le ali, incerto, poi si posò lo stesso, perché si stancava facilmente, e doveva riposarsi. Piuma di Perla sbatté le palpebre. Palla di Neve era timido, e non disse niente per non farle capire che era forestiero. A un certo punto, Piuma di Perla gli chiese se sapeva chi fosse questo signore a cavallo che li ospitava.
«No» rispose Palla di Neve, «sono nuovo qui.»
«Era un guerriero» disse Piuma di Perla. «In battaglia ha perso una mano, ma invece di arrendersi ha imparato a combattere con la mano sinistra.»
Palla di Neve capì che con queste parole Piuma di Perla voleva alludere alla sua ala spezzata e le chiese se voleva andare a vivere con lui nella casa sotto la grondaia del palazzo.
Ci abitano ancora. È Palla di Neve che mi ha raccontato questa storia, quando me ne sono andata. Se nella casa sotto la grondaia adesso ci abiti tu, alle sette di sera ricordati di affacciarti alla finestra. Sentirai dei rumori, dei trilli e degli zompi, e vedrai piovere dall’alto delle piume grigio perla e delle piume bianche. Non sta nevicando. Sono Palla di Neve e Piuma di Perla che fanno l’amore.
Questa storia me l’ha raccontata un vecchio piccione che stava di casa sopra la finestra di camera mia tanto tempo fa, perciò non so se è vera. Però siccome lo conoscevo bene, e abbiamo abitato nello stesso palazzo per nove anni, e mi ha chiesto di raccontarla a tutti quelli che conoscevo, e io gliel’ho promesso, ve la racconto pure se se l’è inventata.
Immaginate una piazza grande, davanti a una chiesa, nella città vecchia. Una piazza benedetta dove c’è il sole tutto il giorno, dalla mattina alla sera. Quella piazza la volevano tutti: i ristoranti e i bar per metterci i tavolini, i ragazzi per incontrarsi sotto la statua di un tizio a cavallo, il tizio a cavallo per far sapere a tutti quanto era stato importante quando era vivo, i motorini per abbronzarsi al sole, i bambini per giocare, i passeri per fare shopping, i venditori ambulanti per esporre le borse e gli occhiali da sole, i turisti per mangiare i panini seduti per terra, i gatti per rimorchiare. Ma più di tutto la volevano i piccioni, perché avevano sempre abitato nella città vecchia – da prima che la città fosse vecchia – e se ne consideravano i proprietari. La piazza era sempre stata grande, però era successo un fatto strano. Sembrava sempre più piccola. Non c’era più posto per tutti. Così, man mano che aumentavano i ristoranti, i bar, i turisti, i gatti, i motorini, i piccioni, i bambini, ognuno cercava di scacciare l’altro, e tutti si lagnavano che prima si stava meglio. Ma nessuno sapeva dire quando era questo prima che nessuno aveva visto. I piccioni di carattere sono allegri, pigri e socievoli. Cioè gli piace stare in compagnia, e tutto il giorno se ne stanno a far niente, a litigare, a chiacchierare, ad abbordare le piccione, e a mangiare. Nessuno lavora più del necessario. Poi, quando fa sera, ognuno se ne torna a casa sua. Abitavano tutti nelle vicinanze. I piccioni erano tutti italiani. Cioè se li guardavi erano tutti uguali. Erano alti lo stesso, e della stessa misura. Avevano le stesse zampe rosa, gli stessi becchi rossi. Avevano gli occhi grigio-azzurri e le piume grigie, colore della cenere.
Un giorno però in quel mare uniforme di cenere comparve un piccione bianco. Ma bianco davvero. Era più piccolo degli altri e sembrava una palla di neve ammucchiata per sbaglio fuori stagione. Nessuno lo aveva visto arrivare, e perciò tutti rimasero molto stupiti quando a un tratto, sotto la panchina di marmo dove un giapponese stava sgranocchiando un panino, sbucò Palla di Neve, e arrivò per primo, planando, e si portò via la crosta di pane. Questo fatto era intollerabile, e subito gli altri gli volarono attorno, con le piume arruffate, per fargli capire che erano molto incattiviti. Gli dissero che qui non ci poteva stare, non poteva rubare il pane che era sempre stato loro, e di andarsene da un’altra parte. Palla di Neve rispose che non voleva rubare niente a nessuno, non faceva niente di male perché c’era pane per tutti, ma anche lui aveva fame. Allora Occhio Cieco, che era il piccione più vecchio della piazza e il capo della comunità, gli saltò addosso, gli piantò le zampe in testa e gli beccò il collo. Palla di Neve tutto spaventato mollò la crosta di pane. Zampettò davanti a un negozio di souvenir e rimase ad aspettare. Però da quella parte non cadevano briciole, e dopo un po’ la fame gli restituì il coraggio. Allora cercando di non dare nell’occhio, a piccoli voli, un saltello dopo l’altro, si riavvicinò al gruppo. Però, siccome era bianchissimo, lo notarono subito, e i più giovani strinsero le fila, come un esercito, e gli formarono davanti un muro di piume grigie. «Che vuoi?» gli chiese Zampa Storta, spingendo minacciosamente in avanti la testa. Si muoveva a scatti, come un pupazzo a molla. «Sono appena arrivato» rispose Palla di Neve, intimidito, «voglio vivere qui.»
Quando gli chiesero da dove veniva, Palla di Neve indicò col becco il cielo azzurro, e gli altri piccioni gli dissero di tornarsene da dove era venuto, perché qui erano già in troppi e non c’era posto per lui. Palla di Neve disse che il viaggio era stato troppo lungo, e lui era troppo stanco per ripartire subito. Gli altri gli dissero che se se ne andava subito non gli avrebbero fatto niente. Ma se non rispettava la legge, peggio per lui. Palla di Neve non voleva andarsene, perché aveva sentito parlare di questa piazza da anni, e finalmente c’era arrivato. Non aveva mai saputo che una legge gli proibiva di restare e non si mosse. Allora Zampa Storta e Becco Lercio lo presero nel mezzo e lo scortarono fino al cassonetto dei rifiuti, dall’altra parte della strada. «Sta’ attento» gli dissero, «se ti rivediamo in piazza sei morto e a casa tua non ci torni più.»
Sotto il cassonetto c’erano un gatto e un gelato che si scioglieva al sole. Zampettando, Palla di Neve si avvicinò al rivolo del gelato più lontano dal gatto, e cominciò a succhiare. Aveva un buon sapore di fragola. Però la fragola piaceva anche al gatto, che drizzò la coda, e inarcò la schiena, e a un tratto allungò una zampata, e per lo spavento Palla di Neve spiccò il volo e si mise in salvo sul bordo del cassonetto. Si appostò là e cominciò ad aspettare, pensando che tanto il gatto prima o poi finiva di mangiare. Invece il gatto non se ne andò, asciugò tutto il gelato e poi cominciò a lavarsi con la lingua, e dopo un’ora a Palla di Neve, che era stanchissimo e affamato, venne sonno. Guardò dentro il cassonetto, e vide che c’erano dei bellissimi materassi neri, tutti imbottiti. Sembravano un posto fantastico per dormire. Palla di Neve saltò nel cassonetto, e si buttò sul materasso, che era infatti morbido e profumato di cibo. E si addormentò di schianto.
Quando si risvegliò, era tutto buio. Ma buio davvero, che non si vedeva niente. Il buon odore di cibo si era trasformato in un puzzo da svenire. Palla di Neve si rialzò sulle zampe, e guardò dove prima c’era il cielo azzurro, e vide nero. Allora si spaventò. E capì che lo avevano chiuso dentro. E cominciò a chiamare aiuto. E chiamò e chiamò finché gli andò via la voce. Poi si mise a piangere. Ma nessuno lo sentì.
Era passato chissà quanto tempo quando riaprì gli occhi e la prima cosa che vide fu una bottiglia rotta – vicino al becco. E poi due spilli che scintillavano. Erano occhi. Palla di Neve cominciò a tremare, perché gli occhi appartenevano a una specie di salsiccia spelacchiata e lucida come una chiazza di petrolio che lo fissava. Era un grosso, grossissimo topo nero. Con un filo di voce Palla di Neve gli disse: «Non mangiarmi, ti prego». Topo Nero scoppiò a ridere. «Mangiare te? Sei un mucchietto d’ossi, posso trovare di meglio» disse. Palla di Neve tentò di rimettersi dritto sulle zampe, e di volar via subito, prima che l’altro cambiasse idea, però non ci riuscì. E non capì perché. «Cosa mi è successo?» mormorò. «Sei stato fortunato fratello» disse Topo Nero, «quando hanno svuotato il cassonetto nel camion dormivi e potevi restare stritolato. Invece il netturbino ti ha visto, ti preso per un’ala e ti ha buttato via.» Palla di Neve tentò di spiegare le ali, e capì che qualcosa non andava. Per il dolore, gli si drizzarono le piume sulla schiena. «Ti sei spezzato un’ala» disse Topo Nero. Palla di Neve si rannicchiò sulle zampe, e nascose la testa sotto l’ala. Sapeva cosa gli sarebbe successo. Quando un piccione si spezza un’ala, è condannato. Prima o poi lo investe una macchina, o muore di fame, e diventa un mucchietto di piume sul bordo della strada. Era un destino molto triste per uno che aveva fatto tanta strada, e Palla di Neve ricominciò a piangere.
«Vieni con me» disse Topo Nero, e senza voltarsi cominciò a strisciare in un vicolo oscuro. Zoppicando, Palla di Neve lo seguì. La casa del topo era dietro l’angolo. S’infilò nella zanzariera bucata che qualcuno aveva incollato contro una grata. «Stanotte puoi dormire qui» gli disse. «Poi però devi trovarti un altro posto, perché noi siamo già troppi e se ci becca il portiere ci ammazza tutti.» Palla di Neve si guardò attorno e nel buio sentì fremere i baffi di decine di topi. Decine di code gli si avvolsero attorno alle zampe. Erano i figli del topo. Erano tutti neri.
Nella casa di Topo Nero, Palla di Neve rimase tutto l’inverno. Giorno dopo giorno, l’ala spezzata gli dava meno dolore, e a poco a poco Palla di Neve cominciò a esplorare i dintorni. La piazza era molto vicina: ma se ne vedeva solo uno spicchio, la croce sulla chiesa, l’insegna del ristorante all’angolo e la testa del tizio di bronzo sul cavallo. Si vedevano anche i piccioni appostati sui cornicioni – tutti grigi come la cenere, tutti allegri e felici. La casa del topo era nelle cantine di un grande palazzo – il palazzo più grande che Palla di Neve avesse mai visto. C’era un grande cortile, con una magnolia, e un pozzo chiuso da una grata di ferro, e una palma. Sulla palma, venivano a chiacchierare due pappagalli brasiliani verdi come schizzi di vernice, frivoli e divertenti tant’è che le loro risate attiravano i corvi e le gazze di tutta la città vecchia; sul tetto del palazzo abitavano tre coppie incredibilmente chiassose di rondini africane; sulla magnolia si fermavano a litigare i gabbiani, che siccome erano nati in città parlavano un dialetto molto stretto – incomprensibile per Palla di Neve; nel buco del camino c’era una coppia di pipistrelli – e siccome erano due maschi, tutti gli abitanti del palazzo ne spettegolavano stupiti: ma tanto i pipistrelli uscivano solo di notte e si vedevano poco. Tutti gli uccelli lo salutarono, ognuno si faceva i fatti suoi, e Palla di Neve si sentì a casa. Dall’altissima antenna della televisione poteva contemplare tutta la città. Milioni di tetti, milioni di esseri umani, milioni di topi, migliaia di uccelli, migliaia di piccioni. C’era posto per tutti, e qui Palla di Neve voleva vivere. Nessuno sarebbe riuscito a scacciarlo. Nemmeno se fosse riuscito a volare di nuovo se ne sarebbe andato.
Poi scoprì il rifugio sotto la grondaia dell’ultimo piano. Era libero. Il pipistrello gli disse che ci avevano vissuto per anni un merlo e la sua merla, e ci erano stati bene, ma quando i figli erano cresciuti se n’erano andati. Il rifugio era al riparo dalla pioggia, e al caldo perché dietro il muro, proprio in quel punto, passava il tubo del riscaldamento. Per tutto l’inverno, Palla di Neve si costruì la casa. Un volo dopo l’altro, ci portò stecchi, foglie, cartacce, erba e fango secco. La costruì grande, e bella, e all’inizio della primavera salutò Topo Nero, lo ringraziò per l’aiuto, non avrebbe mai dimenticato. Promise che avrebbe ricambiato, tubando in codice se vedeva arrivare il portiere, e gli operai della derattizzazione. Nella nuova casa, era felice – però siccome c’era cibo dappertutto, non aveva niente da fare, e si sentiva solo, per passare il tempo si mise a spiare nella casa della ragazza che abitava proprio sotto di lui. Non voleva farsi notare, per paura che la ragazza lo facesse sfrattare dal portiere del palazzo, un omone enorme di cui il topo e la sua famiglia avevano una paura terribile. L’omone aveva tentato di sterminare il topo con un boccone di formaggio al veleno. Il boccone l’aveva mangiato il cane del notaio del primo piano, e il portiere non ci aveva più riprovato. Aveva chiamato la derattizzazione, che aveva bombardato il villaggio nelle cantine coi cannoni a gas. I figli più piccoli di Topo Nero erano morti soffocati e la moglie di Topo Nero si era bruciata i polmoni, e ancora tossiva. Poi avevano tentato con la polverina bianca, spargendola dappertutto come borotalco, e adesso tutti gli animali del palazzo – cani, gatti, pipistrelli, pappagalli, gazze, corvi, rondini - sapevano di non doversi mai fidare degli uomini. Però la ragazza non tentò mai di avvelenarlo e alla fine Palla di Neve diventò così coraggioso da passeggiare sul davanzale della finestra. La ragazza abitava con un ragazzo. Palla di Neve li guardava mangiare, dormire, ridere e fare capriole sotto i lenzuoli, e allora capì che cosa gli mancava. Doveva tornare in piazza e trovarsi una compagna.
Era estate. La piazza era talmente piena che dovette sorvolarla a lungo, e faticò a trovare un posto per posare le zampe. Ma la cosa più stupefacente fu che Palla di Neve vide – in mezzo alla marea grigio-cenere – alcune macchie di colore. C’erano piccioni bianco panna e piccioni scuri, quasi color asfalto, piccioni con le zampe grigie e piccioni col becco arancione o giallo. Rinfrancato, riuscì a mescolarsi agli altri piccioni senza che Occhio Cieco lo facesse scacciare dalle sue guardie. I piccioni stranieri venivano da chissà dove. Se glielo chiedevi, indicavano chi il fiume, chi le colline, chi in direzione del mare. Vivevano sparpagliati in città. Però di giorno venivano in piazza, e mangiavano negli stessi posti degli altri – fra le panchine, davanti alla chiesa, sotto i tavolini dei ristoranti. Palla di Neve volò – tutto lento perché l’ala gli era rimasta rattrappita – sull’unico spazio libero: la testa del tizio a cavallo. La piuma di bronzo del suo elmo era il punto più alto della piazza. Da lì, Palla di Neve sentiva tutte le voci, vedeva i colori, la gente, il movimento. Era come volare, ma senza dolore e senza fatica. Prese l’abitudine di passare lì tutto il giorno. Era bianchissimo, si notava da lontano. «Guarda quel piccione che si crede di essere un’aquila» disse Zampa Storta alla sorella. La sorella, Piuma di Perla, guardò. Non vide un’aquila, ma un piccione bianco come la neve. Era diverso da tutti, e si godeva il sole nel punto più bello della piazza. Quando Palla di Neve spiccò il volo per tornare a casa, Piuma di Perla si accorse che volava tutto storto, e che l’ala destra gli pendeva di lato come uno straccio.
Il giorno dopo, sull’elmo del tizio a cavallo Palla di Neve trovò una picciona col becco rosso, gli occhi azzurri e le piume soffici, che mandavano dei riflessi d’argento. Frullò le ali, incerto, poi si posò lo stesso, perché si stancava facilmente, e doveva riposarsi. Piuma di Perla sbatté le palpebre. Palla di Neve era timido, e non disse niente per non farle capire che era forestiero. A un certo punto, Piuma di Perla gli chiese se sapeva chi fosse questo signore a cavallo che li ospitava.
«No» rispose Palla di Neve, «sono nuovo qui.»
«Era un guerriero» disse Piuma di Perla. «In battaglia ha perso una mano, ma invece di arrendersi ha imparato a combattere con la mano sinistra.»
Palla di Neve capì che con queste parole Piuma di Perla voleva alludere alla sua ala spezzata e le chiese se voleva andare a vivere con lui nella casa sotto la grondaia del palazzo.
Ci abitano ancora. È Palla di Neve che mi ha raccontato questa storia, quando me ne sono andata. Se nella casa sotto la grondaia adesso ci abiti tu, alle sette di sera ricordati di affacciarti alla finestra. Sentirai dei rumori, dei trilli e degli zompi, e vedrai piovere dall’alto delle piume grigio perla e delle piume bianche. Non sta nevicando. Sono Palla di Neve e Piuma di Perla che fanno l’amore.