La storia di Onibamb e di bambino
C’è, nel mondo delle cose che non si vedono, un bambino uguale uguale a me. Ha gli stessi capelli color buccia di patata, gli occhi marron schiena di topo, il naso piccolo e la fronte lunga, la bocca larga e due denti spariti nel sorriso dei denti davanti. L’ho incontrato in un prato che non c’è. Vicino a dove abito io non ce n’è proprio, infatti, di prati. C’è strade grosse che si incrociano, palazzi e pattumiere, coi sacchi neri che cascano di lato per il peso, e restano giù tutti rotti dai gatti. Per andare nel prato che non c’è, bisogna sapere le regole dell’incontrario. Io le so. Aspetto di essere a letto (ci sono quasi sempre perché sono quasi sempre malato), aspetto di essere solo nella mia stanza. Sistemo i piedi sul cuscino e la testa dove tengo i piedi, metto le braccia nelle gambe dei pantaloni del pigiama e le gambe le infilo nelle braccia della giacca del pigiama, in testa metto un calzino e nel berretto infilo un piede. Poi dico le due parole magiche: «Onibamb ovirra!». Le parole diventano magiche se le dici all’incontrario. Dopo le parole magiche, devo contare senza contare, cioè dire dei numeri che non sono uno dopo l’altro. Dico 5, 7, 91, 35, 84… finché sento il formicolino. Certe volte il formicolino viene quasi subito, certe volte dico numeri per un’ora, certe volte il formicolino non viene proprio. Ma queste “certevolte” sono poche. Il formicolino incomincia dal corpo, come se ti passeggiasse un passerotto sopra il cuore, e finisce con la voglia di ridere. Quando viene la voglia di ridere devi ridere. Forte: ah-ah-ah, ma anche oh-oh-oh. La vocale con cui ridi non importa. Prima che tu finisca di ridere, il prato ti entra nella stanza. È un bel prato, niente di impressionante, ma è verde con l’erba tagliata bassa. È un prato per giocarci e lui è sempre già lì, è già arrivato quando arrivo io. Lui, Onibamb. Lui è come me, ma senza le seccature. Tanto per cominciare non è malato. Sua madre infatti è come le madri sono soltanto nelle fotografie del matrimonio. Ride, ha il cappello e un mazzo di fiori in mano. Suo padre non è pelato e sua nonna non è mai morta. Nel mondo delle cose che non si vedono non si muore, quindi non si nasce e non ci si guasta. Non si perdono i capelli, non si finisce mai all’ospedale. Gli ospedali non ci sono proprio. Perché infatti non servono: ci sono prati, spiagge e mari, ristoranti con le tovaglie di pizzo e montagne non troppo alte con i fianchi coperti di neve. Onibamb in ogni posto fa la cosa giusta: nel mare nuota, in spiaggia sta sdraiato e sente le canzoni alla radio, in montagna scivola con lo slittino, al ristorante con le tovaglie di pizzo mangia il pollo arrosto con le patate. Onibamb è da solo solo quando ne ha voglia, perché può stare con chi vuole. Mia nonna e mio nonno, il nonno di mio nonno e il nonno del nonno di mio nonno. Fino al primo nonno della storia che è fatto a forma di scimmia e si gratta sempre il sedere. Nel mondo delle cose che non si vedono, nessuno va perso, non c’è spreco di gente umana. Incontri persone degli altri secoli così sai sempre quello che devi fare perché le cose peggiori sono già successe e qualcuno ti dice come è andata a finire e tu non le rifai. No, se non sei proprio scemo. Io mi trovo molto bene nel mondo delle cose che non si vedono. Sono tutti più tranquilli che qui e più allegri. Anche Onibamb, Onibamb è uguale a me senza la tristezza. Non è mai triste, Onibamb, certe volte è perfino noioso, perché è sempre così contento. Ieri abbiamo giocato a Tiri in Porta. Io tiravo fortissimo, come so tirare solo quando sono nel prato che non c’è. Lui parava sempre, si tuffava e zàcchete, pigliava la palla. Qualunque palla. I miei tiri erano sempre più formidabili e le sue parate diventavano sempre più formidabili. Nessuno vinceva e nessuno perdeva. In questi casi ti fermi perché sei stanco, ma noi non eravamo mai stanchi. Nessuno è mai stanco nel mondo delle cose che non si vedono. Mi sono fermato quando mi sono messo a pensare che dovevo fermarmi. Gli ho detto: «Ma se tu li pari tutti, io, perché devo continuare a tirare?». Onibamb ha detto: «Perché ti piace». Allora io gli ho detto: «A me piace vincere, non è tirare che mi piace». E lui ha detto: «Qui nel paese dove vivo io nessuno vince e nessuno perde. Se vuoi vincere torna nel tuo paese, però sta attento, che lì, magari, perdi». Sono andato a sedermi all’ombra di un pesco fiorito e Onibamb si è seduto vicino a me. Ha staccato dall’albero una pesca tonda e rosa, me l’ha data, «Mangia» ha detto, «è buona». Era buona, infatti, era dolce al punto giusto e sugosa. Gli ho chiesto come era possibile che sull’albero ci fossero i fiori e anche i frutti e lui mi ha detto che da loro è così, che si può mangiare i frutti e guardare i fiori, che non si deve aspettare che i frutti maturino, che i fiori cadano. Loro non aspettano mai. Perché? «Perché non esiste il tempo» ha detto Onibamb.
«Ma se non esiste il tempo come fate ad andare di fretta?»
«Non andiamo mai di fretta, noi, infatti. Non aspettiamo, e non abbiamo fretta. Non abbiamo bisogno di dimenticare, non facciamo gli scongiuri e non abbiamo paura.»
Gli ho chiesto se poteva venire una volta lui a trovarmi nel mondo delle cose che si vedono. Gli ho detto che adesso, per un po’ di tempo, non avrei potuto andare io da lui, perché dovevo tornare in ospedale e quando sono lì, mia madre sta sempre seduta vicino al mio letto e se non c’è mia madre c’è mio padre e se non c’è mio padre c’è mio fratello grande o zia Lina. Non mi lasciano mai solo quando sono in ospedale, ma io non sono molto contento perché hanno la faccia sempre un po’ buia e, quando si accorgono che me ne sono accorto, sorridono con gli occhi fermi e dicono qualcosa di cretino. Ho detto a Onibamb, per favore, te lo chiedo proprio come un favore fra fratelli, raggiungimi tu, che ti costa, lo so che qui è tutto azzurro mare o verde prato o bianco neve e io vado in una stanza che puzza di mele cotte, con letti tre di qua e tre di là, e sopra i letti gente con la faccia gialla che fa rumori col corpo.
Io lo so che tu stai meglio lì dove sei, ma io non posso aspettare di tornare a casa ed essere solo nella mia stanza.
«Io non posso venire di là, perché sto nell’al di qua, però, se vuoi, puoi portare tua madre con te.»
Così adesso devo spiegare a mia madre perché deve mettersi i pantaloni nelle braccia e la giacchetta nelle gambe, la calza in testa e il cappellino in un piede. Non so neanche se, lei che non è magra come me, la manica se la può infilare su per il polpaccio.
La guardo mentre dorme, fingeva di star sveglia mentre io fingevo di dormire. Penso che potrei spogliarla io e rivestirla al contrario. Ma non so come si fa.
Mia madre apre gli occhi proprio mentre sto levandole una scarpa.
Mi guarda e mi sorride. Si mette la scarpa sopra i capelli, e mi fa segno di sederle sulle ginocchia, io salgo, lei mi abbraccia stretto, come quando ero piccolo.
Urliamo insieme. «Onibamb omaivirra!»
Onibamb ci aspetta in riva al mare, ci togliamo subito io il pigiama e mia madre i calzoni e la camicetta. Nuotiamo io davanti e lei dietro. L’acqua è limpida, piccoli pesci rossi e gialli, guizzano come piume nella corrente. Mia madre ride come l’ho vista ridere soltanto nelle fotografie del matrimonio.
Onibamb ci guarda dalla riva, ha steso due asciugamani sulla sabbia. Ha acceso la radio.
Quando la accende lui, la radio trasmette sempre delle belle canzoni.
C’è, nel mondo delle cose che non si vedono, un bambino uguale uguale a me. Ha gli stessi capelli color buccia di patata, gli occhi marron schiena di topo, il naso piccolo e la fronte lunga, la bocca larga e due denti spariti nel sorriso dei denti davanti. L’ho incontrato in un prato che non c’è. Vicino a dove abito io non ce n’è proprio, infatti, di prati. C’è strade grosse che si incrociano, palazzi e pattumiere, coi sacchi neri che cascano di lato per il peso, e restano giù tutti rotti dai gatti. Per andare nel prato che non c’è, bisogna sapere le regole dell’incontrario. Io le so. Aspetto di essere a letto (ci sono quasi sempre perché sono quasi sempre malato), aspetto di essere solo nella mia stanza. Sistemo i piedi sul cuscino e la testa dove tengo i piedi, metto le braccia nelle gambe dei pantaloni del pigiama e le gambe le infilo nelle braccia della giacca del pigiama, in testa metto un calzino e nel berretto infilo un piede. Poi dico le due parole magiche: «Onibamb ovirra!». Le parole diventano magiche se le dici all’incontrario. Dopo le parole magiche, devo contare senza contare, cioè dire dei numeri che non sono uno dopo l’altro. Dico 5, 7, 91, 35, 84… finché sento il formicolino. Certe volte il formicolino viene quasi subito, certe volte dico numeri per un’ora, certe volte il formicolino non viene proprio. Ma queste “certevolte” sono poche. Il formicolino incomincia dal corpo, come se ti passeggiasse un passerotto sopra il cuore, e finisce con la voglia di ridere. Quando viene la voglia di ridere devi ridere. Forte: ah-ah-ah, ma anche oh-oh-oh. La vocale con cui ridi non importa. Prima che tu finisca di ridere, il prato ti entra nella stanza. È un bel prato, niente di impressionante, ma è verde con l’erba tagliata bassa. È un prato per giocarci e lui è sempre già lì, è già arrivato quando arrivo io. Lui, Onibamb. Lui è come me, ma senza le seccature. Tanto per cominciare non è malato. Sua madre infatti è come le madri sono soltanto nelle fotografie del matrimonio. Ride, ha il cappello e un mazzo di fiori in mano. Suo padre non è pelato e sua nonna non è mai morta. Nel mondo delle cose che non si vedono non si muore, quindi non si nasce e non ci si guasta. Non si perdono i capelli, non si finisce mai all’ospedale. Gli ospedali non ci sono proprio. Perché infatti non servono: ci sono prati, spiagge e mari, ristoranti con le tovaglie di pizzo e montagne non troppo alte con i fianchi coperti di neve. Onibamb in ogni posto fa la cosa giusta: nel mare nuota, in spiaggia sta sdraiato e sente le canzoni alla radio, in montagna scivola con lo slittino, al ristorante con le tovaglie di pizzo mangia il pollo arrosto con le patate. Onibamb è da solo solo quando ne ha voglia, perché può stare con chi vuole. Mia nonna e mio nonno, il nonno di mio nonno e il nonno del nonno di mio nonno. Fino al primo nonno della storia che è fatto a forma di scimmia e si gratta sempre il sedere. Nel mondo delle cose che non si vedono, nessuno va perso, non c’è spreco di gente umana. Incontri persone degli altri secoli così sai sempre quello che devi fare perché le cose peggiori sono già successe e qualcuno ti dice come è andata a finire e tu non le rifai. No, se non sei proprio scemo. Io mi trovo molto bene nel mondo delle cose che non si vedono. Sono tutti più tranquilli che qui e più allegri. Anche Onibamb, Onibamb è uguale a me senza la tristezza. Non è mai triste, Onibamb, certe volte è perfino noioso, perché è sempre così contento. Ieri abbiamo giocato a Tiri in Porta. Io tiravo fortissimo, come so tirare solo quando sono nel prato che non c’è. Lui parava sempre, si tuffava e zàcchete, pigliava la palla. Qualunque palla. I miei tiri erano sempre più formidabili e le sue parate diventavano sempre più formidabili. Nessuno vinceva e nessuno perdeva. In questi casi ti fermi perché sei stanco, ma noi non eravamo mai stanchi. Nessuno è mai stanco nel mondo delle cose che non si vedono. Mi sono fermato quando mi sono messo a pensare che dovevo fermarmi. Gli ho detto: «Ma se tu li pari tutti, io, perché devo continuare a tirare?». Onibamb ha detto: «Perché ti piace». Allora io gli ho detto: «A me piace vincere, non è tirare che mi piace». E lui ha detto: «Qui nel paese dove vivo io nessuno vince e nessuno perde. Se vuoi vincere torna nel tuo paese, però sta attento, che lì, magari, perdi». Sono andato a sedermi all’ombra di un pesco fiorito e Onibamb si è seduto vicino a me. Ha staccato dall’albero una pesca tonda e rosa, me l’ha data, «Mangia» ha detto, «è buona». Era buona, infatti, era dolce al punto giusto e sugosa. Gli ho chiesto come era possibile che sull’albero ci fossero i fiori e anche i frutti e lui mi ha detto che da loro è così, che si può mangiare i frutti e guardare i fiori, che non si deve aspettare che i frutti maturino, che i fiori cadano. Loro non aspettano mai. Perché? «Perché non esiste il tempo» ha detto Onibamb.
«Ma se non esiste il tempo come fate ad andare di fretta?»
«Non andiamo mai di fretta, noi, infatti. Non aspettiamo, e non abbiamo fretta. Non abbiamo bisogno di dimenticare, non facciamo gli scongiuri e non abbiamo paura.»
Gli ho chiesto se poteva venire una volta lui a trovarmi nel mondo delle cose che si vedono. Gli ho detto che adesso, per un po’ di tempo, non avrei potuto andare io da lui, perché dovevo tornare in ospedale e quando sono lì, mia madre sta sempre seduta vicino al mio letto e se non c’è mia madre c’è mio padre e se non c’è mio padre c’è mio fratello grande o zia Lina. Non mi lasciano mai solo quando sono in ospedale, ma io non sono molto contento perché hanno la faccia sempre un po’ buia e, quando si accorgono che me ne sono accorto, sorridono con gli occhi fermi e dicono qualcosa di cretino. Ho detto a Onibamb, per favore, te lo chiedo proprio come un favore fra fratelli, raggiungimi tu, che ti costa, lo so che qui è tutto azzurro mare o verde prato o bianco neve e io vado in una stanza che puzza di mele cotte, con letti tre di qua e tre di là, e sopra i letti gente con la faccia gialla che fa rumori col corpo.
Io lo so che tu stai meglio lì dove sei, ma io non posso aspettare di tornare a casa ed essere solo nella mia stanza.
«Io non posso venire di là, perché sto nell’al di qua, però, se vuoi, puoi portare tua madre con te.»
Così adesso devo spiegare a mia madre perché deve mettersi i pantaloni nelle braccia e la giacchetta nelle gambe, la calza in testa e il cappellino in un piede. Non so neanche se, lei che non è magra come me, la manica se la può infilare su per il polpaccio.
La guardo mentre dorme, fingeva di star sveglia mentre io fingevo di dormire. Penso che potrei spogliarla io e rivestirla al contrario. Ma non so come si fa.
Mia madre apre gli occhi proprio mentre sto levandole una scarpa.
Mi guarda e mi sorride. Si mette la scarpa sopra i capelli, e mi fa segno di sederle sulle ginocchia, io salgo, lei mi abbraccia stretto, come quando ero piccolo.
Urliamo insieme. «Onibamb omaivirra!»
Onibamb ci aspetta in riva al mare, ci togliamo subito io il pigiama e mia madre i calzoni e la camicetta. Nuotiamo io davanti e lei dietro. L’acqua è limpida, piccoli pesci rossi e gialli, guizzano come piume nella corrente. Mia madre ride come l’ho vista ridere soltanto nelle fotografie del matrimonio.
Onibamb ci guarda dalla riva, ha steso due asciugamani sulla sabbia. Ha acceso la radio.
Quando la accende lui, la radio trasmette sempre delle belle canzoni.