Pane di pietra
C’era una volta una bambina bionda, dalla faccia lentigginosa e i denti in fuori che la facevano assomigliare a un coniglio. Quella bambina, nei lontani anni 1943 e ’44, si trovava in Giappone, chiusa in un campo di concentramento. In Europa c’era la guerra. Un paese civile, che aveva conosciuto la grande musica, la grande filosofia, la grande letteratura, si era consegnato nelle mani di un gruppo di pazzi criminali. Nessuno sa dire veramente come sia potuto succedere. Ma forse è accaduto come accade alle giovani ingenue ragazze che si innamorano di un bell’imbusto che poi, contando su quell’amore, le spoglia di ogni avere e alla fine le ammazza.
Il padre e la madre della bambina, quando le autorità governative avevano chiesto agli italiani che stavano in Giappone, di aderire alla Repubblica di Salò, che era l’ultimo avamposto nazifascista nell’Italia lontana, risposero decisamente di no. Non per convinzione politica, ma perché il razzismo era loro profondamente antipatico. L’idea che ci fossero persone di una razza superiore che potevano decidere cosa dovessero pensare e fare persone che loro definivano di razza inferiore, era insopportabilmente ingiusta. Non avendo firmato l’adesione all’Asse Germania-Giappone-Italia, i due genitori furono considerati dal governo giapponese dei traditori e come tali chiusi in un campo di concentramento con tutta la famiglia, ovvero con tre bambine piccole. Un camion militare li trasportò nell’ottobre del 1943 in una vecchia caserma nei sobborghi della città di Nagoya. Il posto si chiamava Tempaku.
Lì si dovettero confrontare con le bombe che cadevano quotidianamente. La bambina ricorda ancora le sirene che suonavano di notte e la corsa verso il rifugio, che era semplicemente un fossato scavato malamente dal padre e dagli altri giovani illanguiditi dal forzato digiuno. La sirena poteva suonare a qualsiasi ora della notte e del giorno. La bambina ricorda come scattasse su dal materassino steso per terra, come si buttasse giù dalle scale per raggiungere il terreno aperto davanti alla casa. Le schegge delle bombe schizzavano dappertutto e ancora oggi pensa che sia un miracolo non averne presa una in qualche parte del corpo. Ma era diventata bravissima a schivare le bombe gettandosi con un tuffo nel fossato e prima ancora correndo a zig zag rasente i muri. Qualche volta però si incantava a guardare gli aerei che sfrecciavano in alto, sopra le loro teste, come tanti uccelli di metallo che improvvisamente aprivano la loro pancia piena di bombe e ne lasciavano sgusciare fuori una decina, come fossero tante uova pesanti e compatte. Quelle uova le vedeva scivolare lungo le belle onde del cielo. Da come cadevano, sapeva dove sarebbero andate a colpire, vicine o lontane dal campo. Se la corsa dell’aereo e i venti gentili trascinavano quelle uova verso nord, lei sapeva di potere rimanere a testa in su ad ammirare gli uccelli giganti dalle ali lucide che fendevano le acque celesti e facevano rotolare giù con tanta eleganza quelle uova micidiali che cadendo buttavano scintille, portavano morte e sangue.
Nei momenti liberi dalle bombe, la bambina giocava con le pietre. Giocattoli non ce n’erano e perfino le pietre erano rare in quel cortile cittadino. Le teneva tutte ammucchiate da una parte, vicino a un muretto, anzi dentro una breccia del muretto che costeggiava il cortile e andava a tirarle fuori quando aveva voglia di svagarsi. Il gioco era sempre lo stesso: le pietre si trasformavamo sotto i suoi occhi vogliosi in pani di tutte le forme. C’era il pane giallo fatto di mais, di cui le aveva parlato la mamma un giorno. Mandava un buon odore di farina dolce e lei lo serviva su un piatto immaginario, col contorno di tante buone verdure, che erano le pietre più lunghe (asparagi), pietre più corte e tozze (patate), pietre tonde (pomodori). Qualche volta capitava anche un uovo. Era un uovo speciale però, che non cadeva dalla pancia degli aerei, non portava dentro un esplosivo e nemmeno un tenero tuorlo giallo, ma era freddo e impenetrabile come tutte le pietanze di quei magri giorni di guerra. Poi c’era il pane di segala, il pane di farina bianca, il pane con le olive, il pane con l’uvetta, il pane dai cornetti sollevati, bianco e stupido, come quello che si fa a Bologna, così le aveva raccontato Bigio, uno dei compagni di campo che veniva proprio da quella città. C’era anche il pan di Spagna che si imbottisce col cioccolato e la panna. Era una prelibatezza che la bambina teneva per i giorni più disperati. Eppure non conosceva né la panna né la cioccolata, essendo nata in tempo di guerra. La cioccolata, sentiva che ne parlavano qualche volta gli adulti, era una cosa scura. Ma scura come la terra? Sì, come la terra bagnata, più scura ancora. Come una pietra nera? Be’, il cioccolato ha il colore del cioccolato, diceva spazientito suo padre e lei rifletteva su come poteva essere il colore di quel cibo che tutti consideravano prelibato. In compenso pensava di immaginare facilmente la panna. Perché le avevano detto che veniva dal latte e il latte l’aveva bevuto quando era a casa, a Sapporo. La panna ha il colore della neve, questo lo sapeva, ma era dolce, mentre la neve a metterla in bocca ha un sapore amarognolo.
Lei di sapori se ne intendeva. Nel campo aveva preso l’abitudine di assaggiare ogni cosa. Sperando sempre di potere fare tacere la pancia che brontolava, brontolava sia di notte che di giorno. Aveva assaggiato le formiche, schiacciandole prima fra le dita e poi portandole sulla lingua. Le aveva trovate acidule e sgradevoli. Ma era sempre qualcosa da mandare giù. Ne aveva ingoiate a manciate. Finché suo padre non l’aveva scoperta e le aveva detto che le formiche tengono in corpo l’acido formico che è velenoso. E così era stata costretta a smettere. Aveva assaggiato le ghiande. Se i maiali le mangiano, potremo mangiarle anche noi, si erano detti, questa volta perfino gli adulti. E le avevano sbucciate con attenzione e messe sotto i denti. Ma le avevano dovute sputare subito. Perché era come mangiare una colla che attacca per sempre la lingua al palato e ti impedisce di deglutire. Le ghiande non sono buone per gli esseri umani, per i maiali sì, anche per i cavalli, ma non per gli esseri umani.
Aveva assaggiato le foglie di ciliegio, quelle che asciugate al sole, venivano arrotolate e fumate da suo padre. Ma dopo averne masticate tre o quattro, le era venuto da rigettare. Aveva assaggiato il gesso graffiato dai muri della caserma. In polvere poteva quasi assomigliare alla farina. Ma anche il gesso allappa e non nutre.
Dopo qualche mese aveva imparato, piccola com’era, a strisciare sotto i fili spinati e sgattaiolare verso la discarica dell’ospedale militare lì vicino. Era buio e non si vedeva un accidente. Ma c’era un faro girevole che ogni tanto si posava su quel mucchio di immondizia in cui lei affondava le mani per cercare qualcosa da portare al campo. Una volta aveva trovato una testa di pesce bollito, ancora intera. Se l’era messa in tasca e l’aveva portata al campo. Quella testa se l’erano divisa in cinque e si erano divorati tutto, anche gli occhi: due palline dure e gommose, nonché le scaglie e le branchie spinose.
Un’altra volta aveva trovato, sempre nella discarica dell’ospedale una placenta con dentro un corpicino morto. Quello non si poteva mangiare. Ma l’aveva guardato a lungo. Era minuscolo quel bimbo e sembrava dormire abbracciato al suo cordone. Certo in quel momento era più sfortunato di lei, che era viva e aveva pure la mamma anche se malridotta per la fame.
Poi un giorno la caserma era caduta in pezzi sotto le bombe e loro erano stati spinti sopra un camion e portati in un altro campo, in campagna. Si chiamava Kosai-ji, era un tempio scintoista, con un grande altare scuro, ornato di lunghi fiori di loto dorati. Il pavimento fatto di tatami conservava un buon odore di paglia di riso, era però il rifugio preferito di miliardi di pulci e pidocchi. La bambina aveva orrore di quegli insetti che la mordevano a sangue e le impedivano di dormire per il gran grattare. Ogni tanto si mettevano, come fanno le scimmie, una dietro l’altra, lei con le sue sorelle e si spidocchiavano. Ogni pidocchio preso e schiacciato era una vittoria. E la vittoriosa aveva diritto a un bacio. Si baciavano parecchio e volentieri le tre sorelle. Era un modo di tenersi allegre in mezzo a quello squallore.
Ricorda ancora, la bambina lentigginosa, di quando è morto il vecchio prete del tempio, che l’avevano disteso vicino all’altare. Di notte tutte le cimici e le pulci erano scappate via dal suo corpo e si erano avviate in fila verso il cortile. Così le aveva trovate la mattina la bambina: indaffarate a guadagnarsi l’uscita. Un lungo serpentello nero che attraversava tutti i tatami del tempio. E per una volta aveva provato simpatia per quelle bestiole. Finché rimanevano sul suo corpo, voleva dire che era viva e il suo sangue scorreva caldo nelle vene, cosa da apprezzarsi grandemente in quei giorni di bombardamenti e di fame. Meglio viva con le pulci e i pidocchi che morta senza pulci e pidocchi, si era detta e da lì erano nate una serie di riflessioni che l’avrebbero accompagnata tutta la vita sul rapporto diplomatico che uno deve stabilire con i parassiti. Una cosa è certa: quando i parassiti ti lasciano in pace vuol dire che il tuo sangue si è gelato, ovvero sei diventato una cosa da buttare via. Lei non voleva essere buttata via e neanche sepolta sotto terra. Aveva paura di stare sotto terra. Voleva restare sopra la terra, respirare l’aria e correre quando ne aveva le forze e guardare il mondo che, nonostante quegli orrori, era sempre il miglior posto che conoscesse per vivere. Ogni tanto il giovane padre le parlava dell’universo. Era un uomo a cui piaceva stare con la testa in su a guardare le stelle. Le conosceva per nome, con un dito indicava le costellazioni: «Vedi Cassiopea, vedi l’Orsa maggiore e quella è l’Orsa minore, poi c’è la stella polare e vedi, più in fondo la Chioma di Berenice…».
Un giorno, dopo una gran pioggia, c’era stata una invasione di rane nel giardinetto del tempio. La prima idea che era venuta a tutti i prigionieri era stata di farne una strage. Ingozzarsi di rane. Per riempire una volta tanto la pancia vuota. Ma quando la bambina aveva preso in mano un ranocchietto verde come è verde l’erba in primavera e aveva osservato il suo piccolo gozzo che andava su e giù per la paura, quando aveva visto gli occhietti scuri che la guardavano con apprensione e il cuore che pulsava sotto le sue dita, era stata invasa da un sentimento che gli affamati dimenticano: la pietà. Che gli adulti mangiassero pure le altre rane! Quella che aveva in mano l’avrebbe salvata, a ogni costo. La commiserazione e la comprensione che improvvisamente provava per quell’esserino le suggerivano di nasconderlo e poi farlo passare di notte al di là dei fili spinati, in una zona sicura. E così aveva fatto. Ma nel momento di separarsi dalla minuscola e fragile creatura, si era messa a piangere. Pensava che il suo cuore indurito dalla fame e dalla paura non fosse più capace di provare amicizia. Invece avvertiva una struggente e dolcissima amicizia per la creaturina indifesa stretta delicatamente nel pugno, e per lei si sentiva di sfidare le leggi del campo, portandola in una zona sicura. Era come depositare una parte di sé, la più imprevedibile e sconosciuta, al di là dei fili spinati, al di là della fame, al di là della guerra, fra le delicate erbe di un campo selvatico. Vai! aveva detto alla sua ranocchietta, e sii felice! La bambina non sapeva se avrebbe vissuto ancora a lungo. Le guardie giapponesi gridavano ogni giorno loro in faccia che se avessero vinto la guerra, li avrebbero ammazzati tutti, e facevano il gesto di tagliare la gola. La bambina si nascondeva fra le gambe della madre, pensando ancora una volta che doveva essere proprio brutto avere la gola tagliata e sperava che non sarebbe successo. Per questo pregava in cuor suo, a ogni ora del giorno: «Bambino Gesù, fai che i giapponesi non vincano la guerra, fai che non vincano la guerra!». Non si sentiva ancora pronta per andare sotto terra. Era così bella l’aria, così forte il sole, così dolce il vento, perfino con la pancia contratta dalla fame.
Poi c’era stato il grande terremoto che aveva quasi buttato giù il tempio, aveva spaccato la terra del giardino, aveva spezzato gli alberi e aperto crateri in mezzo alle pietre. La bambina lentigginosa ricorda ancora che il tempio tremava in tal modo che non si riusciva a stare in piedi. Lei aveva sceso le scale che portavano al giardino seduta sui gradini aiutandosi con le mani mentre sua madre afferrava sua sorella che stava cadendo a testa in giù, acciuffandola per un piede, stringendosela poi al petto. Il terremoto aveva continuato per tanti lunghi minuti che a lei erano sembrati anni. Traballavano le pareti e alcune cadevano, oscillavano gli alberi, trepidavano i fiori, rabbrividivano perfino le pietre. Poi di colpo ogni cosa aveva smesso di agitarsi e tutti avevano respirato felici. Ma dopo un’ora si erano sentiti dei rumori sinistri, come dei boati sotterranei e di nuovo le pareti avevano cominciato a sussultare. Il terremoto faceva più paura delle bombe perché l’incursione veniva annunciata dall’allarme, mentre il terremoto no. La bambina dormiva con un occhio sempre aperto a fissare la lampadina nuda che pendeva dal soffitto. Quando la lampadina cominciava a dondolare voleva dire che la bestia si stava scrollando e svegliando. Dopo sarebbe venuta la furia. La paura era tanta. Non c’era modo di fermarla, quella bestiaccia. Sembrava che la terra volesse ingoiarseli tutti aprendo tante bocche avide nel giardino, nei campi. Non c’era dove andare senza rischiare di essere ingoiati vivi.
Infine la guerra era finita, in un giorno di agosto e del ’45, dopo due bombe micidiali che erano state buttate su Hiroshima e Nagasaki uccidendo più di trecentomila persone. I prigionieri del piccolo campo giapponese non lo sapevano che era finita la guerra perché non avevano né radio né giornali. Ma lo capirono dal fatto che una mattina trovarono le guardiole vuote. I poliziotti che tanto li avevano angariati e li chiamavano traditori, e li minacciavano di morte appena avessero vinto la guerra, se l’erano squagliata. Non ne era rimasta nemmeno l’ombra. E così loro, i prigionieri, si misero a ballare e saltare per la gioia. Erano usciti dai fili spinati senza essere minacciati dai fucili, avevano camminato fra i campi, si erano fatti il bagno in un torrentello che avevano sempre visto da lontano.
Passarono due, tre, cinque giorni e nessuno veniva a prenderli. Ma la guerra non era finita? E come mai nessuno si occupava di loro? Sentivano degli aerei che passavano sopra le loro teste, anche a bassa quota, ma come fare a farsi notare? Noi siamo qui, gridavano sbracciandosi, ma i grandi aerei americani non li vedevano. Così decisero di cucire una bandiera italiana. Per fare questo presero il lenzuolo di una delle guardie, la tagliarono in tre pezzi e poi ne tinsero una di rosso, con i pomodori colti nei campi, una di verde con l’erba tagliata nel prato vicino al tempio e una la lasciarono bianca. Mia madre, che era la sola donna del campo, cucì le tre parti e gli uomini salirono sul montarozzo più alto della zona e distesero la bandiera in modo che fosse visibile agli aerei in perlustrazione. Ne passarono diversi, ma senza vedere né loro né il drappo.
Finalmente, un venerdì mattina, arrivò un aereo che forse fu più curioso degli altri, scese a bassa quota, scrutò ben bene la zona, ma poi se ne volò via. I grandi bestemmiarono ancora una volta: come era possibile che nessuno vedesse la loro bandiera! Alcuni dicevano che bisognava costruirne una nuova, ma dove trovare tanto rosso e tanto verde? E poi nel frattempo le guardie avevano mandato i parenti a ritirare la loro roba, comprese le lenzuola e quindi non c’era più materiale per fabbricare bandiere. Gli uomini, senza scoraggiarsi, passavano le giornate sul montarozzo ad agitare lo straccio bianco rosso e verde ogni volta che sentivano avvicinarsi un aereo. Dopo due giorni videro finalmente due grossi apparecchi militari che puntavano proprio su di loro. Cosa vogliono questi? Avevano l’aria minacciosa. E se fossero aviatori giapponesi che vengono a scagliare bombe sul campo? Gli uomini si nascosero dietro i sassi o dentro le grotte naturali del montarozzo. Ma quale fu la sorpresa di tutti quando si vide che uno per volta scendevano quasi a sfiorare il monte, aprivano le loro pance di ferro e lasciavano cadere una decina di bidoni scuri legati a un paracadute che si apriva come un candido fiore contro il cielo pulito.
I bidoni cadevano, si rompevano contro le rocce di quel sassuto montarozzo e si aprivano come fossero fatti di cartone. Da quei bidoni uscivano e si disperdevano per la montagna chili di cioccolata, sacchi di polvere di piselli, fiumi di latte condensato che prendevano a scorrere verso valle con grande gioia delle bambine che avrebbero voluto tuffarsi in quel ben di Dio. Ma l’ordine era perentorio: non si tocca niente! Guai a mettersi in bocca quella roba! Lo stomaco contratto da tanto digiuno sarebbe scoppiato, peggio di una rana vanitosa.
Così avevano raccolto quello che potevano raccogliere: gli scarponi militari, le camicie verde oliva, le scatole di corned beef, la cioccolata semisquagliata, i barattoli di pesche sciroppate, le lattine di Coca-Cola e avevano ammucchiato tutto nel campo. A ciascuno la sua catasta. E guai a chi toccava quella degli altri! D’altronde ce n’era per cento persone. E loro erano solo quattordici.
Poi sarebbero arrivate le giornate afose di Tokyo. Avrebbero giocato in mezzo alle macerie della città. La bambina dai denti di coniglio sarebbe caduta su un pezzo di vetro bucandosi il ginocchio e la ferita avrebbe stentato a guarire. La debolezza del campo si faceva sentire anche ora che erano liberi.
C’è una fotografia che la ritrae, assieme con le sorelle, in mezzo ai detriti della capitale giapponese. Portano dei vestiti a quadretti, i capelli appuntati dietro la nuca, e ai piedi, sandali di corda. Guardano con occhi spauriti verso l’obiettivo dietro cui c’era il sorriso affettuoso di un padre magro come una salacca. “Piccole selvagge” le chiamava la madre e probabilmente aveva ragione. Erano uscite dal campo come dei gattini possono uscire da un sacco buio in cui sono stati tenuti rinchiusi per mesi, senza sapere se sarebbero affogati.
C’era una volta una bambina bionda, dalla faccia lentigginosa e i denti in fuori che la facevano assomigliare a un coniglio. Quella bambina, nei lontani anni 1943 e ’44, si trovava in Giappone, chiusa in un campo di concentramento. In Europa c’era la guerra. Un paese civile, che aveva conosciuto la grande musica, la grande filosofia, la grande letteratura, si era consegnato nelle mani di un gruppo di pazzi criminali. Nessuno sa dire veramente come sia potuto succedere. Ma forse è accaduto come accade alle giovani ingenue ragazze che si innamorano di un bell’imbusto che poi, contando su quell’amore, le spoglia di ogni avere e alla fine le ammazza.
Il padre e la madre della bambina, quando le autorità governative avevano chiesto agli italiani che stavano in Giappone, di aderire alla Repubblica di Salò, che era l’ultimo avamposto nazifascista nell’Italia lontana, risposero decisamente di no. Non per convinzione politica, ma perché il razzismo era loro profondamente antipatico. L’idea che ci fossero persone di una razza superiore che potevano decidere cosa dovessero pensare e fare persone che loro definivano di razza inferiore, era insopportabilmente ingiusta. Non avendo firmato l’adesione all’Asse Germania-Giappone-Italia, i due genitori furono considerati dal governo giapponese dei traditori e come tali chiusi in un campo di concentramento con tutta la famiglia, ovvero con tre bambine piccole. Un camion militare li trasportò nell’ottobre del 1943 in una vecchia caserma nei sobborghi della città di Nagoya. Il posto si chiamava Tempaku.
Lì si dovettero confrontare con le bombe che cadevano quotidianamente. La bambina ricorda ancora le sirene che suonavano di notte e la corsa verso il rifugio, che era semplicemente un fossato scavato malamente dal padre e dagli altri giovani illanguiditi dal forzato digiuno. La sirena poteva suonare a qualsiasi ora della notte e del giorno. La bambina ricorda come scattasse su dal materassino steso per terra, come si buttasse giù dalle scale per raggiungere il terreno aperto davanti alla casa. Le schegge delle bombe schizzavano dappertutto e ancora oggi pensa che sia un miracolo non averne presa una in qualche parte del corpo. Ma era diventata bravissima a schivare le bombe gettandosi con un tuffo nel fossato e prima ancora correndo a zig zag rasente i muri. Qualche volta però si incantava a guardare gli aerei che sfrecciavano in alto, sopra le loro teste, come tanti uccelli di metallo che improvvisamente aprivano la loro pancia piena di bombe e ne lasciavano sgusciare fuori una decina, come fossero tante uova pesanti e compatte. Quelle uova le vedeva scivolare lungo le belle onde del cielo. Da come cadevano, sapeva dove sarebbero andate a colpire, vicine o lontane dal campo. Se la corsa dell’aereo e i venti gentili trascinavano quelle uova verso nord, lei sapeva di potere rimanere a testa in su ad ammirare gli uccelli giganti dalle ali lucide che fendevano le acque celesti e facevano rotolare giù con tanta eleganza quelle uova micidiali che cadendo buttavano scintille, portavano morte e sangue.
Nei momenti liberi dalle bombe, la bambina giocava con le pietre. Giocattoli non ce n’erano e perfino le pietre erano rare in quel cortile cittadino. Le teneva tutte ammucchiate da una parte, vicino a un muretto, anzi dentro una breccia del muretto che costeggiava il cortile e andava a tirarle fuori quando aveva voglia di svagarsi. Il gioco era sempre lo stesso: le pietre si trasformavamo sotto i suoi occhi vogliosi in pani di tutte le forme. C’era il pane giallo fatto di mais, di cui le aveva parlato la mamma un giorno. Mandava un buon odore di farina dolce e lei lo serviva su un piatto immaginario, col contorno di tante buone verdure, che erano le pietre più lunghe (asparagi), pietre più corte e tozze (patate), pietre tonde (pomodori). Qualche volta capitava anche un uovo. Era un uovo speciale però, che non cadeva dalla pancia degli aerei, non portava dentro un esplosivo e nemmeno un tenero tuorlo giallo, ma era freddo e impenetrabile come tutte le pietanze di quei magri giorni di guerra. Poi c’era il pane di segala, il pane di farina bianca, il pane con le olive, il pane con l’uvetta, il pane dai cornetti sollevati, bianco e stupido, come quello che si fa a Bologna, così le aveva raccontato Bigio, uno dei compagni di campo che veniva proprio da quella città. C’era anche il pan di Spagna che si imbottisce col cioccolato e la panna. Era una prelibatezza che la bambina teneva per i giorni più disperati. Eppure non conosceva né la panna né la cioccolata, essendo nata in tempo di guerra. La cioccolata, sentiva che ne parlavano qualche volta gli adulti, era una cosa scura. Ma scura come la terra? Sì, come la terra bagnata, più scura ancora. Come una pietra nera? Be’, il cioccolato ha il colore del cioccolato, diceva spazientito suo padre e lei rifletteva su come poteva essere il colore di quel cibo che tutti consideravano prelibato. In compenso pensava di immaginare facilmente la panna. Perché le avevano detto che veniva dal latte e il latte l’aveva bevuto quando era a casa, a Sapporo. La panna ha il colore della neve, questo lo sapeva, ma era dolce, mentre la neve a metterla in bocca ha un sapore amarognolo.
Lei di sapori se ne intendeva. Nel campo aveva preso l’abitudine di assaggiare ogni cosa. Sperando sempre di potere fare tacere la pancia che brontolava, brontolava sia di notte che di giorno. Aveva assaggiato le formiche, schiacciandole prima fra le dita e poi portandole sulla lingua. Le aveva trovate acidule e sgradevoli. Ma era sempre qualcosa da mandare giù. Ne aveva ingoiate a manciate. Finché suo padre non l’aveva scoperta e le aveva detto che le formiche tengono in corpo l’acido formico che è velenoso. E così era stata costretta a smettere. Aveva assaggiato le ghiande. Se i maiali le mangiano, potremo mangiarle anche noi, si erano detti, questa volta perfino gli adulti. E le avevano sbucciate con attenzione e messe sotto i denti. Ma le avevano dovute sputare subito. Perché era come mangiare una colla che attacca per sempre la lingua al palato e ti impedisce di deglutire. Le ghiande non sono buone per gli esseri umani, per i maiali sì, anche per i cavalli, ma non per gli esseri umani.
Aveva assaggiato le foglie di ciliegio, quelle che asciugate al sole, venivano arrotolate e fumate da suo padre. Ma dopo averne masticate tre o quattro, le era venuto da rigettare. Aveva assaggiato il gesso graffiato dai muri della caserma. In polvere poteva quasi assomigliare alla farina. Ma anche il gesso allappa e non nutre.
Dopo qualche mese aveva imparato, piccola com’era, a strisciare sotto i fili spinati e sgattaiolare verso la discarica dell’ospedale militare lì vicino. Era buio e non si vedeva un accidente. Ma c’era un faro girevole che ogni tanto si posava su quel mucchio di immondizia in cui lei affondava le mani per cercare qualcosa da portare al campo. Una volta aveva trovato una testa di pesce bollito, ancora intera. Se l’era messa in tasca e l’aveva portata al campo. Quella testa se l’erano divisa in cinque e si erano divorati tutto, anche gli occhi: due palline dure e gommose, nonché le scaglie e le branchie spinose.
Un’altra volta aveva trovato, sempre nella discarica dell’ospedale una placenta con dentro un corpicino morto. Quello non si poteva mangiare. Ma l’aveva guardato a lungo. Era minuscolo quel bimbo e sembrava dormire abbracciato al suo cordone. Certo in quel momento era più sfortunato di lei, che era viva e aveva pure la mamma anche se malridotta per la fame.
Poi un giorno la caserma era caduta in pezzi sotto le bombe e loro erano stati spinti sopra un camion e portati in un altro campo, in campagna. Si chiamava Kosai-ji, era un tempio scintoista, con un grande altare scuro, ornato di lunghi fiori di loto dorati. Il pavimento fatto di tatami conservava un buon odore di paglia di riso, era però il rifugio preferito di miliardi di pulci e pidocchi. La bambina aveva orrore di quegli insetti che la mordevano a sangue e le impedivano di dormire per il gran grattare. Ogni tanto si mettevano, come fanno le scimmie, una dietro l’altra, lei con le sue sorelle e si spidocchiavano. Ogni pidocchio preso e schiacciato era una vittoria. E la vittoriosa aveva diritto a un bacio. Si baciavano parecchio e volentieri le tre sorelle. Era un modo di tenersi allegre in mezzo a quello squallore.
Ricorda ancora, la bambina lentigginosa, di quando è morto il vecchio prete del tempio, che l’avevano disteso vicino all’altare. Di notte tutte le cimici e le pulci erano scappate via dal suo corpo e si erano avviate in fila verso il cortile. Così le aveva trovate la mattina la bambina: indaffarate a guadagnarsi l’uscita. Un lungo serpentello nero che attraversava tutti i tatami del tempio. E per una volta aveva provato simpatia per quelle bestiole. Finché rimanevano sul suo corpo, voleva dire che era viva e il suo sangue scorreva caldo nelle vene, cosa da apprezzarsi grandemente in quei giorni di bombardamenti e di fame. Meglio viva con le pulci e i pidocchi che morta senza pulci e pidocchi, si era detta e da lì erano nate una serie di riflessioni che l’avrebbero accompagnata tutta la vita sul rapporto diplomatico che uno deve stabilire con i parassiti. Una cosa è certa: quando i parassiti ti lasciano in pace vuol dire che il tuo sangue si è gelato, ovvero sei diventato una cosa da buttare via. Lei non voleva essere buttata via e neanche sepolta sotto terra. Aveva paura di stare sotto terra. Voleva restare sopra la terra, respirare l’aria e correre quando ne aveva le forze e guardare il mondo che, nonostante quegli orrori, era sempre il miglior posto che conoscesse per vivere. Ogni tanto il giovane padre le parlava dell’universo. Era un uomo a cui piaceva stare con la testa in su a guardare le stelle. Le conosceva per nome, con un dito indicava le costellazioni: «Vedi Cassiopea, vedi l’Orsa maggiore e quella è l’Orsa minore, poi c’è la stella polare e vedi, più in fondo la Chioma di Berenice…».
Un giorno, dopo una gran pioggia, c’era stata una invasione di rane nel giardinetto del tempio. La prima idea che era venuta a tutti i prigionieri era stata di farne una strage. Ingozzarsi di rane. Per riempire una volta tanto la pancia vuota. Ma quando la bambina aveva preso in mano un ranocchietto verde come è verde l’erba in primavera e aveva osservato il suo piccolo gozzo che andava su e giù per la paura, quando aveva visto gli occhietti scuri che la guardavano con apprensione e il cuore che pulsava sotto le sue dita, era stata invasa da un sentimento che gli affamati dimenticano: la pietà. Che gli adulti mangiassero pure le altre rane! Quella che aveva in mano l’avrebbe salvata, a ogni costo. La commiserazione e la comprensione che improvvisamente provava per quell’esserino le suggerivano di nasconderlo e poi farlo passare di notte al di là dei fili spinati, in una zona sicura. E così aveva fatto. Ma nel momento di separarsi dalla minuscola e fragile creatura, si era messa a piangere. Pensava che il suo cuore indurito dalla fame e dalla paura non fosse più capace di provare amicizia. Invece avvertiva una struggente e dolcissima amicizia per la creaturina indifesa stretta delicatamente nel pugno, e per lei si sentiva di sfidare le leggi del campo, portandola in una zona sicura. Era come depositare una parte di sé, la più imprevedibile e sconosciuta, al di là dei fili spinati, al di là della fame, al di là della guerra, fra le delicate erbe di un campo selvatico. Vai! aveva detto alla sua ranocchietta, e sii felice! La bambina non sapeva se avrebbe vissuto ancora a lungo. Le guardie giapponesi gridavano ogni giorno loro in faccia che se avessero vinto la guerra, li avrebbero ammazzati tutti, e facevano il gesto di tagliare la gola. La bambina si nascondeva fra le gambe della madre, pensando ancora una volta che doveva essere proprio brutto avere la gola tagliata e sperava che non sarebbe successo. Per questo pregava in cuor suo, a ogni ora del giorno: «Bambino Gesù, fai che i giapponesi non vincano la guerra, fai che non vincano la guerra!». Non si sentiva ancora pronta per andare sotto terra. Era così bella l’aria, così forte il sole, così dolce il vento, perfino con la pancia contratta dalla fame.
Poi c’era stato il grande terremoto che aveva quasi buttato giù il tempio, aveva spaccato la terra del giardino, aveva spezzato gli alberi e aperto crateri in mezzo alle pietre. La bambina lentigginosa ricorda ancora che il tempio tremava in tal modo che non si riusciva a stare in piedi. Lei aveva sceso le scale che portavano al giardino seduta sui gradini aiutandosi con le mani mentre sua madre afferrava sua sorella che stava cadendo a testa in giù, acciuffandola per un piede, stringendosela poi al petto. Il terremoto aveva continuato per tanti lunghi minuti che a lei erano sembrati anni. Traballavano le pareti e alcune cadevano, oscillavano gli alberi, trepidavano i fiori, rabbrividivano perfino le pietre. Poi di colpo ogni cosa aveva smesso di agitarsi e tutti avevano respirato felici. Ma dopo un’ora si erano sentiti dei rumori sinistri, come dei boati sotterranei e di nuovo le pareti avevano cominciato a sussultare. Il terremoto faceva più paura delle bombe perché l’incursione veniva annunciata dall’allarme, mentre il terremoto no. La bambina dormiva con un occhio sempre aperto a fissare la lampadina nuda che pendeva dal soffitto. Quando la lampadina cominciava a dondolare voleva dire che la bestia si stava scrollando e svegliando. Dopo sarebbe venuta la furia. La paura era tanta. Non c’era modo di fermarla, quella bestiaccia. Sembrava che la terra volesse ingoiarseli tutti aprendo tante bocche avide nel giardino, nei campi. Non c’era dove andare senza rischiare di essere ingoiati vivi.
Infine la guerra era finita, in un giorno di agosto e del ’45, dopo due bombe micidiali che erano state buttate su Hiroshima e Nagasaki uccidendo più di trecentomila persone. I prigionieri del piccolo campo giapponese non lo sapevano che era finita la guerra perché non avevano né radio né giornali. Ma lo capirono dal fatto che una mattina trovarono le guardiole vuote. I poliziotti che tanto li avevano angariati e li chiamavano traditori, e li minacciavano di morte appena avessero vinto la guerra, se l’erano squagliata. Non ne era rimasta nemmeno l’ombra. E così loro, i prigionieri, si misero a ballare e saltare per la gioia. Erano usciti dai fili spinati senza essere minacciati dai fucili, avevano camminato fra i campi, si erano fatti il bagno in un torrentello che avevano sempre visto da lontano.
Passarono due, tre, cinque giorni e nessuno veniva a prenderli. Ma la guerra non era finita? E come mai nessuno si occupava di loro? Sentivano degli aerei che passavano sopra le loro teste, anche a bassa quota, ma come fare a farsi notare? Noi siamo qui, gridavano sbracciandosi, ma i grandi aerei americani non li vedevano. Così decisero di cucire una bandiera italiana. Per fare questo presero il lenzuolo di una delle guardie, la tagliarono in tre pezzi e poi ne tinsero una di rosso, con i pomodori colti nei campi, una di verde con l’erba tagliata nel prato vicino al tempio e una la lasciarono bianca. Mia madre, che era la sola donna del campo, cucì le tre parti e gli uomini salirono sul montarozzo più alto della zona e distesero la bandiera in modo che fosse visibile agli aerei in perlustrazione. Ne passarono diversi, ma senza vedere né loro né il drappo.
Finalmente, un venerdì mattina, arrivò un aereo che forse fu più curioso degli altri, scese a bassa quota, scrutò ben bene la zona, ma poi se ne volò via. I grandi bestemmiarono ancora una volta: come era possibile che nessuno vedesse la loro bandiera! Alcuni dicevano che bisognava costruirne una nuova, ma dove trovare tanto rosso e tanto verde? E poi nel frattempo le guardie avevano mandato i parenti a ritirare la loro roba, comprese le lenzuola e quindi non c’era più materiale per fabbricare bandiere. Gli uomini, senza scoraggiarsi, passavano le giornate sul montarozzo ad agitare lo straccio bianco rosso e verde ogni volta che sentivano avvicinarsi un aereo. Dopo due giorni videro finalmente due grossi apparecchi militari che puntavano proprio su di loro. Cosa vogliono questi? Avevano l’aria minacciosa. E se fossero aviatori giapponesi che vengono a scagliare bombe sul campo? Gli uomini si nascosero dietro i sassi o dentro le grotte naturali del montarozzo. Ma quale fu la sorpresa di tutti quando si vide che uno per volta scendevano quasi a sfiorare il monte, aprivano le loro pance di ferro e lasciavano cadere una decina di bidoni scuri legati a un paracadute che si apriva come un candido fiore contro il cielo pulito.
I bidoni cadevano, si rompevano contro le rocce di quel sassuto montarozzo e si aprivano come fossero fatti di cartone. Da quei bidoni uscivano e si disperdevano per la montagna chili di cioccolata, sacchi di polvere di piselli, fiumi di latte condensato che prendevano a scorrere verso valle con grande gioia delle bambine che avrebbero voluto tuffarsi in quel ben di Dio. Ma l’ordine era perentorio: non si tocca niente! Guai a mettersi in bocca quella roba! Lo stomaco contratto da tanto digiuno sarebbe scoppiato, peggio di una rana vanitosa.
Così avevano raccolto quello che potevano raccogliere: gli scarponi militari, le camicie verde oliva, le scatole di corned beef, la cioccolata semisquagliata, i barattoli di pesche sciroppate, le lattine di Coca-Cola e avevano ammucchiato tutto nel campo. A ciascuno la sua catasta. E guai a chi toccava quella degli altri! D’altronde ce n’era per cento persone. E loro erano solo quattordici.
Poi sarebbero arrivate le giornate afose di Tokyo. Avrebbero giocato in mezzo alle macerie della città. La bambina dai denti di coniglio sarebbe caduta su un pezzo di vetro bucandosi il ginocchio e la ferita avrebbe stentato a guarire. La debolezza del campo si faceva sentire anche ora che erano liberi.
C’è una fotografia che la ritrae, assieme con le sorelle, in mezzo ai detriti della capitale giapponese. Portano dei vestiti a quadretti, i capelli appuntati dietro la nuca, e ai piedi, sandali di corda. Guardano con occhi spauriti verso l’obiettivo dietro cui c’era il sorriso affettuoso di un padre magro come una salacca. “Piccole selvagge” le chiamava la madre e probabilmente aveva ragione. Erano uscite dal campo come dei gattini possono uscire da un sacco buio in cui sono stati tenuti rinchiusi per mesi, senza sapere se sarebbero affogati.